«Nessuna tutela né diritti per partite Iva e collaboratori»
Ne parliamo con Paola, architetto dell’associazione «Iva sei partita», che lavora con una finta partita Iva in uno studio dove disegna e fa progettazione. «Nel mio caso – sostiene – la riforma che il governo ha annunciato non è un deterrente perché non si applica a chi è iscritto ad un ordine professionale e lavora con la partita Iva».
Ma come, chiediamo, uno dei cavalli di battaglia della riforma, non può essere applicata lì dove questa forma contrattuale è più diffusa e rappresenta una delle poche opportunità di avere un lavoro? «Proprio così – risponde Paola – gli architetti non possono essere iscritti all’ordine se sono dipendenti, ma l’unico modo che hanno per lavorare è quello della finta partita Iva». Timbrano cioè un cartellino, mettono la firma sulle pratiche, ma non hanno alcuna autonomia professionale. È quello che accade in tutte le professioni ordinistiche: ad esempio gli avvocati, gli ingegneri o i commercialisti. Non c’è altra scelta, per ricevere uno stipendio che si aggira in media sui mille euro al mese. «Del resto – aggiunge Paola – sarebbe molto difficile tramutare un rapporto di lavoro a partita iva in rapporto dipendente. Per farlo il lavoratore, che la legge considera un «libero professionista», sarebbe obbligato a non iscriversi all’ordine, perdendo così il titolo professionale».
Quello delle partite Iva non è l’unica contraddizione della riforma. Ilaria Lani, responsabile dei giovani Cgil, ne elenca altre due. Innanzitutto l’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) destinata ai lavoratori dipendenti del settore privato e ai precari del pubblico. Questo significa che esclude i collaboratori (co.co.pro, occasionali), chi lavora con voucher o il «job on call», cioè la maggioranza degli oltre 4 milioni di precari, intermittenti o indipendenti ai quali non verrà riconosciuta alcuna indennità .
«Avevano promesso un ammortizzatore sociale universale, ma l’Aspi non lo è». Senza contare che la riforma non abolisce i 46 contratti precari, ma li limita a 8. «L’effetto – spiega Lani – sarà quello di negare qualsiasi beneficio per chi ha un contratto a progetto. È anche preoccupante l’aumento dei contributi per i collaboratori. Così facendo si rischia che siano i collaboratori a pagare i contributi».
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