«Italian Theory», i rischi di un nome

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Nella prospettiva di Esposito, la «Italian Theory» viene letta nel senso di un’apertura alla contaminazione, grazie a «un elemento di extraterritorialità » che «ha liberato il pensiero dai vincoli politici e istituzionali che hanno condizionato altre filosofie». Nella prospettiva di Galli della Loggia, la funzione della «Italian Theory» negli Usa consiste nel dare ispirazione all’anticapitalismo di Occupy Wall Street, e nel fornire materia al consumo di mode intellettuali dell’accademia americana.
Le cose ovviamente appaiono in una luce diversa sull’altra sponda dell’Atlantico. Da queste parti, quello che colpisce di tali polemiche è una strana corsa a delimitare i confini di ciò che si qualifica – e, cosa ancor più importante, di ciò che non si qualifica – come «Italian Theory». Che questa demarcazione vada assieme alla messa sotto processo e all’internamento della «French Theory» merita qualche riflessione. Per quanti di noi sono pervenuti al pensiero italiano dopo la «French Theory», è impossibile immaginare il successo intellettuale ed editoriale globale di cui oggi godono filosofi/e italiani/e come Giorgio Agamben, Franco Berardi, Rosi Braidotti, Adriana Cavarero, Roberto Esposito, Toni Negri, Paolo Virno, senza riconoscere il ruolo che la filosofia francese ha giocato e continua a giocare nel pensiero italiano. Sarebbe istruttivo, per esempio, tracciare un grafico del recente successo americano del pensiero italiano mettendolo in rapporto con la traduzione delle Lezioni di Foucault al Collège de France degli anni 70, pubblicate negli Stati Uniti nel corso dell’ultimo decennio. Un grafico di questo tipo ci permetterebbe non solo di inscrivere almeno in parte il successo del pensiero italiano nella seconda ondata dell’effetto-Foucault, ma di interrogarci più profondamente sulle ragioni per cui Foucault continua a esercitare una così forte presa sugli intellettuali sia italiani sia americani. Detto in altri termini, un rischio che si corre nel riclassificare i nomi italiani succitati sotto la comune etichetta della «Italian Theory» è che gli elementi comuni che sono cruciali per la costruzione di un milieu filosofico vengano ricondotti a una tradizione definita e a un territorio apparentemente unificato (perfino quando viene presentato come deterritorializzato). Nell’affermazione del nome «Italian Theory», insomma, sotto la facciata dell’appropriazione (e della spartizione) di una «teoria» si nasconde il rischio di un’unità  forzata.
A questo riguardo, giova ricordare che il convegno organizzato nell’ottobre 2010 dalla rivista «Diacritics» alla Cornell University, i cui atti stanno per essere pubblicati sulla rivista stessa, era intitolato «Commonalities: Thinking the Common in Contemporary Italian Thought». La scelta di parlare del pensiero (thought) italiano, non della teoria (theory), era una scelta consapevole, il pensiero essendo animato dal principio della molteplicità  e dalla nozione di pubblico (come Hannh Arendt insegna e le filosofe della differenza italiane sanno bene, e come infatti Ida Dominijanni sottolineò nel suo contributo). Il pensiero evoca un lessico diverso dalla teoria: pratica, relazionalità , attenzione, gioco, gratitudine. La teoria, con il suo ossessivo guardare, scrutare, scoprire, spesso preclude le capacità  di soppesare con cura e di accogliere con gratitudine che l’etimologia del termine «pensiero» invece suggerisce. Probabilmente ora è già  troppo tardi per cambiare terminologia, ma vale la pena di ricordare, per le genealogie della «Italian Theory» che già  si stanno scrivendo oggi e che si scriveranno domani, che è stato il termine «pensiero» e non «teoria» il primo ad aver accompagnato la discussione sul milieu filosofico italiano nel contesto americano.
Allo stesso riguardo si potrebbe ricordare quello che Nietzsche ebbe a dire sulla gratitudine. «Soltanto assai tardi giunge il momento in cui perfino nella gratitudine è entrato un certo spirito e una certa genialità : allora di solito v’è anche qualcuno che è il grande raccoglitore di riconoscenza, non soltanto per ciò che egli stesso ha fatto di buono, ma anzitutto per ciò che a poco a poco è stato accumulato dai suoi predecessori come un tesoro di sublimi e ottime cose». Con questo brano in mente si potrebbe controbattere a Galli della Loggia, che vede nell’accademia americana una fascinazione subalterna per le mode intellettuali, scorgendovi invece il segno diametralmente opposto di un’apertura al pensiero che prescinde dalla sua provenienza. È questa sensibilità  che arricchisce di passioni la vita, non solo intellettuale ma anche affettiva.
Timothy Campbell, professore di Italian Studies all’Università  di Cornell e membro del comitato editoriale di «Diacritics», è l’organizzatore del convegno internazionale sul “Pensiero italiano” che si è tenuto nella sua università  nell’ottobre 2010


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