«Io, regista curda, in cella per un documentario»
ISTANBUL. Alle cinque del mattino la polizia ha bussato alla porta di casa mia, sei accusata di essere la responsabile culturale del Partito dei lavoratori del Kurdistan mi hanno detto, poi mi hanno portata via» Mà¼jde Arslan, giovane regista curda, dopo giorni di interrogatori sul suo ultimo documentario, il 16 gennaio è stata rilasciata, ma ora ha paura. «Dopo le indagini non è stato aperto nessun procedimento penale nei miei confronti, però non riesco più a dormire, appena sento un rumore penso che sia la polizia che torna a prendermi. Sapevo che il documentario che ho appena terminato, “Io sono volato via, tu sei rimasto qui”, sarebbe stato oggetto di critiche perché parla di un tema caldo come il conflitto turco-curdo, ma non mi sarei mai aspettata l’arresto». Quello di Arslan non è un caso isolato. Sono 105 i giornalisti in carcere secondo gli ultimi dati pubblicati dal TgS, il sindacato dei giornalisti turchi, una cifra tre volte superiore rispetto al 2010.
Il numero crescente di operatori dell’informazione in carcere sta mettendo a rischio il già accidentato percorso di adesione di Ankara all’Ue. La Turchia deve affrontare «urgentemente» il problema dei giornalisti in carcere modificando «un codice penale e una legislazione anti-terrorismo che non garantiscono adeguatamente la libertà d’espressione dando spazio ad abusi» ha dichiarato il Commissario per l’allargamento Stefan Fà¼le.
Secondo Human Rights Watch: «In Turchia i giudici iniziano processi contro individui solo per articoli o discorsi non-violenti e gli arresti avvengono senza tenere nella giusta considerazione l’obbligo di garantire la libertà d’espressione» scrive l’organizzazione internazionale nel suo ultimo rapporto pubblicato il 22 gennaio. Severa anche Reporter senza frontiere che ha declassato la Turchia dal 138 ÌŠ al 148 ÌŠ posto della sua classifica mondiale sulla libertà di stampa.
Dal canto suo il primo ministro turco Erdogan ha rispedito al mittente le critiche, sarebbero molto pochi, infatti, secondo il premier, gli operatori della comunicazione sotto processo per reati d’opinione e la maggior parte dei giornalisti avrebbe commesso reati comuni o legati al terrorismo. «È in corso una campagna denigratoria contro la Turchia alimentata dall’opposizione, i paesi occidentali non ci capiscono perché lì i giornalisti non partecipano a piani golpisti» ha dichiarato Erdogan.
Nel frattempo il ministro della Giustizia turco Sadullah Ergin, dopo le critiche arrivate dell’Europa, è corso ai ripari preparando una proposta di legge che il Parlamento discuterà entro marzo. La nuova normativa prevede pene ridotte per i reati commessi a mezzo stampa e la sospensione automatica della condanna se l’imputato non reitera il reato. È un timido passo avanti, che non rimuove però l’ostacolo principale all’esercizio della libertà di stampa, la legislazione anti-terrorismo. «Secondo i principi contenuti nella Legge anti-terrorismo, approvata nel 1991, i giornalisti possono essere facilmente arrestati e processati con l’accusa di fare propaganda o sostenere un’organizzazione illegale – spiega Emel Gà¼lcan, giornalista e autrice dei rapporti sulla libertà di stampa dell’associazione turca Bianet – il problema principale è che nella legge non vengono tracciati in modo chiaro i limiti entro i quali il lavoro dei giornalisti deve rimanere per non essere considerato “propaganda terrorista” e questo rende chi scrive di temi scomodi come la questione curda o critica il governo un facile bersaglio».
Il 3 marzo il Sindacato dei giornalisti ha indetto una manifestazione a Taksim per chiedere l’abrogazione delle leggi anti-terrorismo e la liberazione di Nedim Sener e Ahmet Sik nel primo anniversario del loro arresto. I due giornalisti, che sono diventati, in questi mesi, il simbolo della lotta per la libertà d’espressione in Turchia, prima di essere fermati, stavano indagando sulla crescente influenza delle organizzazioni islamiste nella polizia. «Sener e Sik sono accusati di aver “generato supporto morale” verso Ergenekon, una rete segreta ultranazionalista che voleva rovesciare, con la violenza, il governo islamista moderato di Recep Tayyip Erdogan, simile alla vostra Gladio» spiega a l’Unità Can Atalay avvocato di Ahmet Sik – «tuttavia le uniche prove che confermerebbero, secondo i Pm, che Sener e Sik sono membri di Ergenekon sono gli articoli che hanno scritto e la bozza di un libro che non è mai stato pubblicato».
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