«Il Welfare serve. Il pareggio di bilancio è un’idea sbagliata»

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Lo stato sociale non è beneficenza, è un diritto. Rende più forte la democrazia, ed è anche un elemento di sviluppo economico. È chiaro che mantenerlo e migliorarlo ha un costo, che però produce guadagno; smantellarlo, invece, significa finire per spendere molto di più». L’economista Paolo Leon ha appena terminato il suo intervento alla Conferenza nazionale «Cresce il welfare, cresce l’Italia», promossa da una cinquantina di organizzazioni sociali, centrato sul tema «Le politiche sociali e lo sviluppo», rovesciando in pochi minuti l’orientamento diffuso in Italia e in tutta Europa per cui a pochi soldi in cassa debba corrispondere poco stato sociale nel Paese.
Ovunque in Europa i governi ci dicono che la priorità  sono i conti e che per mantenerli sotto controllo bisogna tagliare: un problema per il welfare sia a livello centrale che locale, con i Comuni che hanno sempre meno risorse dedicate.
«La cultura dominante conservatrice ha dimenticato ragioni e finalità  dello stato sociale. L’importante è il rigore di bilancio, con il pareggio messo addirittura come vincolo legislativo, qualcosa che suona come una composizione di interessi egoistici e mentalità  medioevale, e che nulla ha a che fare con le ragioni dell’economia. In tutto questo si dimenticano i punti fondamentali: lo stato sociale ha un effetto economico potente, innanzitutto, perché sostituisce beni altrimenti da acquistare col proprio salario, e perciò riduce la conflittualità  tra azienda e lavoratore. Inoltre è uno stabilizzatore automatico del ciclo economico, perché la spesa è invariabile e perché la sua assenza renderebbe le crisi molto più profonde. Altro elemento: fornisce una sicurezza ai cittadini che li spinge ad essere meno avversi al rischio, più imprenditivi. Il che spiega tra l’altro il fiorire in Italia di migliaia di piccole aziende. Tutto questo produce ricchezza in un Paese, senza contare i costi dell’esplosione della rabbia sociale quando, viceversa, il welfare si assottiglia. Ora, il punto è tornare a dare priorità  a questi elementi, al principio generale su cui lo stato sociale universale si fonda». La vede possibile? Come si inverte la tendenza?
«Il problema si deve risolvere in Europa, non tanto in Italia. Ma finché domineranno le forze conservatrici, finché non verranno defenestrati Merkel e Sarkozy, non potrà  succedere granché di positivo. Devono cambiare alcune condizioni, e non solo politiche. La Bce di Draghi, per esempio, invece di sostenere che il modello sociale europeo è in via di estinzione, dovrebbe finanziare con emissione di moneta i disavanzi pubblici, consentendo agli Stati di fuggire dalla strettoia di debito e deficit. Una funzione da creare, certo, ma che sarebbe molto utile. Ci vuole anche una grande unità  a sinistra, parlo sempre a livello europeo, perché solo così si possono rovesciare definitivamente gli strascichi delle politiche targate Reagan-Thatcher».
Un’Europa più potente e più capace di strategie, dice: il caso Grecia non sembra averlo dimostrato.
«La Grecia andava aiutata meglio e prima. Impoverita, non avrà  mai i soldi per pagare il debito. E ricordiamo pure che il debitore ha una funzione economica importante, è la sua spesa ad arricchire il creditore. Eppure, il capitalismo non è stato sempre così buio….».
Il tavolo sul lavoro: che opinione s’è fatto finora?
«Credo che il governo con abile mossa scambierà  il mantenimento della cig straordinaria con l’articolo 18. E la difesa del lavoro verrà  messa ancor più in difficoltà . Qui c’è un elemento di inganno: con la scusa di un mercato del lavoro diviso tra tutelati e non a causa di leggi italiane si cerca di rendere tutti precari. Per estendere le tutele ci vuole un sacco di soldi, sono strumenti che possono adottare solo le economie che crescono. E comunque è il lavoro che crea la ricchezza, non la cig o il sussidio di disoccupazione».
Ma il lavoro non c’è: nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati del 14%. Pensa che la riforma in costruzione possa servire a qualcosa?
«A nulla, direi. Deve aumentare la domanda di beni e servizi, se si riduce il costo del lavoro ma il fatturato delle aziende non cresce, queste avranno forse più margini ma non maggiore vendita. E la disoccupazione continuerà  ad aumentare, senza peraltro contare gli scoraggiati: per forza, mancano le politiche conomiche. Del resto, il Pil diminuisce di due punti, le imprese abbandonano l’Italia, l’unico spiraglio di modesta crescita è che l’euro è un po’ meno caro rispetto a un anno fa, il che favorisce le esportazioni. Forse serviranno un po’ le liberalizzazioni, di certo potrebbe essere utile una diversa politica delle banche, in questo momento di diffuso strangolamento del credito: giusto l’altro giorno c’è stata una notevole immissione di liquidità  da parte della Bce, non accompagnata però da un “consiglio”, un indirizzo alle banche su come usare i soldi. Finirà  che investiranno in speculazioni finanziarie…».


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