L’EUROPA DEI CITTADINI PIà™ DEMOCRAZIA, MENO MERCATI FINANZIARI
Nel processo dell’integrazione europea vanno distinti due piani. L’integrazione degli stati affronta il problema di come ripartire competenze tra l’Unione da un lato e gli stati membri dall’altra. Questa integrazione riguarda dunque l’ampliamento di potere delle istituzioni europee. Invece l’integrazione dei cittadini riguarda la qualità democratica di questo crescente potere, ossia la misura in cui i cittadini possono partecipare a decidere i problemi dell’Europa. Per la prima volta dall’istituzione del Parlamento europeo, il cosidetto «fiscal compact» che si sta varando in queste settimane (per una parte dell’Unione) serve a far crescere l’integrazione statale senza una corrispondente crescita dell’integrazione civica dei cittadini. (…) La tesi che vorrei difendere in questa sede è presto detta. Solo una discussione democratica che affronti a trecentosessanta gradi il futuro comune della nostra cittadinanza europea potrebbe produrre decisioni politicamente credibili, capaci cioè di imporsi ai mercati finanziari e agli speculatori che puntano sulla bancarotta degli stati. (…) Finora, pur cercando di armonizzare accortamente (quanto meno nell’eurozona) le loro politiche fiscali ed economiche, gli stati membri non sono andati al di là di retoriche proclamazioni. L’integrazione degli stati diventerà credibile solo quando potrà appoggiarsi a una integrazione dei cittadini in cui si manifestino maggioranze dichiaratamente pro-europee. In caso contrario, la politica non riguadagnerà più la sua autonomia di contro alle agenzie di rating, grandi banche ed hedgefounds. (…) Dal mio punto di vista, sul piano della politica europea, il governo tedesco sta facendo poche cose giuste e molte cose sbagliate. Lo slogan Più Europa è la risposta giusta a una crisi dovuta a un difetto di costruzione della comunità monetaria. La politica non riesce più a compensare gli squilibri economici che ne sono nati. Sul lungo periodo, il riassetto dei divergenti sviluppi economico-nazionali è realizzabile solo in termini di collaborazione, nel quadro di una responsabilità democraticamente organizzata e condivisa, capace di legittimare anche un certo grado di redistribuzione che oltrepassi le frontiere nazionali.
Da questo punto di vista, il «fiscal compact» è certamente un passo nella direzione giusta. Fin dalla sua definizione ufficiale – trattato «per la stabilità , l’armonizzazione e la governance» – si vede come questo patto sia costituito da due diversi elementi. Esso obbliga i governi per un verso a rispettare le discipline di bilancio nazionali, per l’altro verso a istituzionalizzare una governance di politica economica avente per obbiettivo di eliminare gli scompensi economici (quanto meno nell’eurozona).
Come mai però Angela Merkel festeggia solo la prima parte del patto, quella mirante a penalizzare le infrazioni di bilancio, mentre non spende una parola sulla seconda parte, mirante a una concertazione politica della governance economica? (…) Il governo tedesco, pur riconoscendo a parole il bisogno di una integrazione ulteriore, di fatto contribuisce a lasciar marcire la crisi. A questo riguardo mi limito a quattro brevi considerazioni. In primo luogo non occorre farla lunga, in termini di politica economica, per capire che una unilaterale politica restrittiva, come quella caldeggiata nella Ue dal governo tedesco, spinge nella deflazione i paesi più sofferenti. Ove non si integrino le politiche restrittive con politiche di sviluppo, la pace sociale delle nazioni poste sotto tutela finirà per essere disturbata non soltanto dai pacifici e ordinati cortei dei sindacati.
In secondo luogo, la politica restrittiva risponde all’idea sbagliata secondo cui tutto si risolverà nel momento in cui gli stati membri sapranno accettare questo nuovo patto di stabilità e crescita. Di qui la fissazione di Angela Merkel nel voler imporre sanzioni: una postura minacciosa assolutamente superflua nel momento in cui si riuscissea inserire nella legislazione ordinaria della Ue una governance economica condivisa. Continua invece a imperversare l’idea per cui basterebbe istituire una «giusta» costituzione economica – dunque «regole» sovratemporali – per risparmiarci le fatiche di una concertazione politico-economica nonché i costi derivanti da una legittimazione democratica dei programmi di redistribuzione.
In terzo luogo, Merkel e Sarkozy operano sostanzialmente sul piano di una politica intergovernativa, mirando a spingere avanti, senza troppo rumore, l’integrazione degli stati e non quella dei cittadini. I capi di governo dei 17 paesi rappresentati nel Consiglio dei ministri dovrebbero tenere in pugno il bastone di comando. Sennonché, una volta dotati delle competenze di governance economica, essi svuoterebbero la sovranità economica dei parlamenti nazionali. La conseguenza sarebbe un rafforzamento postdemocratico degli esecutivi dalle conseguenze imprevedibili. Allora, l’inevitabile protesta dei parlamenti spodestati avrebbe almeno il vantaggio di portare in luce quel deficit di legittimazione che solo una riforma democratica degli organi di governo comunitari potrà colmare. In quarto luogo, le parole d’ordine del governo tedesco in fatto di bilancio suscitano all’estero il sospetto che la Germania federale persegua mire nazionalistiche. «Nessuna solidarietà , se prima non si garantisce stabilità ». La proposta lanciata da Berlino di mandare un commissario plenipotenziario ad Atene – dove già ci sono, con analoghe funzioni di controllo, tre commissari appena giunti dalla Germania- dimostra un’incredibile insensibilità nei confronti di un paese in cui non si è ancora spento il ricordo delle efferatezze compiute dalle Ss e dalla Wehrmacht. Helmut Schmidt, in un appassionato discorso, ha deplorato che il governo attuale stia dilapidando il prezioso capitale di fiducia che la Germania si era guadagnata presso i vicini nel corso degli ultimi cinquant’anni.
L’impressione generale – che si ricava da questa sciocca arroganza, per un verso, e dalla troppo timida risposta al ricatto dei mercati finanziari, per l’altro – è che la politica europea non abbia ancora raggiunto il livello di una vera «politica interna». (…) Queste prudenze non sono neppure giustificabili dal vecchio argomento secondo cui l’integrazione è destinata a fallire per mancanza di un popolo europeo e di una sfera pubblica europea. Nelle idee di «nazione»e di «popolo» avevamo a che fare con fantastici soggetti omogenei: ideali che solo nel corso dell’Ottocento, canalizzati dalle scuole pubbliche e dai mass media, si erano impadroniti dell’immaginario popolare. Sennonché le catastrofi del ventesimo secolo non hanno lasciato indenni le ideologie storiografiche dei vari nazionalismi. Oggi l’Europa deve fare i conti non tanto con popoli illusoriamente omogenei, quanto piuttosto con stati-nazione concreti, con una pluralità di lingue e di sfere pubbliche.
Pur associandosi sempre più strettamente sul piano europeo, gli stati nazionali conservano funzioni specifiche. Essi non devono affatto dissolversi in uno stato federale d’Europa, ma conservare un ruolo di garanzia per i livelli di democrazia e di libertà fortunatamente già raggiunti. Ciascuno di noi unisce in petto due ruoli: quello di cittadino del proprio stato e quello di cittadino dell’Unione. E nella misura in cui i cittadini dell’Unione capiranno quanto profondamente le decisioni europee modificano la loro vita, tanto più si sentiranno coinvolti in una politica europea che può anche chiedere di spartire sacrifici. (…) Si dice che la repubblica di Weimar sia fallita perché i suoi difensori democratici erano troppo pochi. Fallirà l’Unione europea per i troppi sostenitori troppo tiepidi? Traduzione di Leonardo Ceppa e Walter Privitera
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