by Editore | 31 Marzo 2012 3:03
È un anno di grandi novità , ma in qualche modo anomalo, per Jonathan Safran Foer. Due opere estremamente diverse lo vedono comunque protagonista: l’adattamento cinematografico di Molto forte, incredibilmente vicino (ripubblicato da Guanda) e la pubblicazione di una nuova versione della Haggadah, il racconto dell’esodo del popolo ebraico dall’Egitto, che viene letto tradizionalmente durante la celebrazione della Pesach, la Pasqua ebraica.
Safran Foer ha curato l’elaborazione di questo testo così importante per la sua tradizione, affidandone l’elaborazione ad un altro romanziere di cui è grande amico: Nathan Englander. Ne è venuta fuori un’opera accolta come un evento, al punto che lo stesso presidente Obama, ricevendola in regalo, ha dichiarato che sostituirà le versioni classiche, usate abitualmente durante il Seder (gli incontri che si celebrano in una delle due sere della Pasqua ebraica, n.d.r.).
Diversa la sorte del film: grande cast hollywoodiano (Tom Hanks e Sandra Bullock) con contorno di grandi attori emergenti (Viola Davis) o icone del cinema europeo (Max Von Sydow). Un regista inglese (Stephen Daldry), il produttore più potente di Hollywood, Harvey Weinstein, due candidature all’Oscar ma critiche non favorevoli. «Apprezzo il film – racconta Safran Foer – e posso dirlo perché non ho avuto alcun ruolo nella realizzazione: è un’opera assolutamente autonoma, come è giusto che sia».
Ha avuto un ruolo almeno nella scelta degli attori?
«No, nessuno, e sono stato sul set soltanto un giorno. L’unico mio apporto creativo è in una scena nella quale è presente una voce off: mi è stato chiesto di controllarla e scrivere qualche riga».
Un adattamento deve essere fedele al romanzo o può essere autonomo sino al tradimento?
«Ritengo che gli adattamenti debbano essere fedeli al senso ultimo del romanzo, non certo al singolo episodio o dettaglio. Altrimenti il risultato è l’illustrazione. Nel caso di questo film, la sceneggiatura è stata scritta da Eric Roth, autore di copioni estremamente diversi come Forrest Gump, Ali e Munich. E aggiungo che si tratta anche di film diversissimi dal mio mondo».
Se dovesse riscrivere oggi il romanzo cambierebbe qualcosa?
«Io sono cambiato e maturato, ma i temi credo che non lo siano. In ogni cosa c’è la superficie e l’essenza, che non sempre è visibile».
Ritiene che scrivere dell’undici settembre abbia avuto anche una valenza terapeutica?
«Non posso escluderlo, ma certamente non è stato il mio unico intento, né quello iniziale. Ogni scrittore sente una necessità di raccontare, e non credo sia salutare razionalizzare troppo sui motivi e gli intenti: si finisce per rischiare il “messaggio”».
Affrontando queste tragedie non c’è anche il rischio di una speculazione emotiva?
«Il rischio ovviamente c’è, e dipende dalla sincerità , prima ancora che dal talento del singolo scrittore. Ma mi sento di escludere che autori come Don DeLillo o Colum McCann, per citare due scrittori che come me hanno affrontato questo tema, siano stati sfiorati da questo tipo di rischio».
In occasione della Pasqua ebraica esce anche la nuova versione della Haggadah: come mai due scrittori giovani che si dichiarano atei sentono il bisogno di riscrivere un testo così radicato nella tradizione religiosa?
«Non siamo stati i primi a riscrivere quel testo e non saremo gli ultimi. Lo abbiamo vissuto come una sfida: affrontare un racconto antico imponendo a noi stessi di tenerlo vitale e attuale. E l’elemento religioso rappresenta qualcosa di eterno, che ha accentuato il senso di sfida. Nella Haggadah c’è anche un elemento estremamente stimolante per uno scrittore: è un testo che non deve essere letto, ma vissuto. È quello che in realtà vogliamo noi romanzieri dai nostri lettori».
L’idea le è venuta durante un Seder con i suoi genitori?
«Si, nove anni fa. Ebbi l’impressione che la lettura della classica versione della Maxwell non stimolasse abbastanza su molti temi quali l’identità , la fede e la giustizia sociale. E sentii che tutti i partecipanti a quella celebrazione, me compreso, avessero voglia di affrettare invece che approfondire».
Cosa ha imparato rileggendo e riscrivendo la Haggadah?
«Che è un testo complicato e problematico, e proprio per questo eccitante».
Esistono versioni della Haggadah per le femministe e anche per i gay.
«Non ho alcun problema a riguardo: la storia che racconta va ben oltre ogni singola interpretazione o adattamento. Lo spirito profondo del racconto parla di giustizia sociale».
Uno dei cambiamenti operati in questa versione è l’espressione “il nostro Dio” che diventa “il Dio di tutti noi”: come mai?
«È stata una scelta di Nathan: è lui l’esperto di lingua ebraica. In alcuni casi ha semplificato, in altri ha cercato la formula più evocativa e poetica».
Joyce Carol Oates ha dichiarato che lei ha il talento fondamentale per uno scrittore: l’energia. È davvero l’elemento fondamentale?
«Certamente, e lo dico ovviamente a prescindere da me. L’energia è un termine flessibile: si può applicare all’energia che si sprigiona tra un paragrafo ed un altro, tra un libro e quello successivo. E, soprattutto, nel momento della creazione, quando si alterna il momento dell’ispirazione a quello dell’insicurezza. Le risposte che si danno a queste situazioni sono la linfa del talento».
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