by Editore | 31 Marzo 2012 12:20
Il 13 luglio dello scorso anno, «Adbusters», la rivista canadese nota per l’antipubblicità e per la critica alla società dei consumi, diffondeva questo messaggio su Twitter: «#OCCUPY WALL STREET. Siete pronti per un momento Tahrir? Il 17 settembre invadete Manhattan, tirate su tende, cucine, barricate pacifiche e occupate Wall Street». Si esortavano poi i lettori a dar vita a un movimento che fosse «una fusione di piazza Tahrir con le acampadas di Spagna».
Si è soliti far risalire a questo episodio l’atto di nascita del movimento che, grazie all’occupazione del luogo simbolico per eccellenza del capitalismo finanziario (Wall Street, appunto) e all’efficacia delle proprie parole d’ordine – basti pensare a quel «Noi siamo il 99%» risuonato poi ovunque nel mondo – ha incarnato probabilmente meglio di altre esperienze la voglia di ribellione e di cambiamento nei confronti del’ordine neocapitalistico e delle sue ricette di fronte alla crisi economica globale.
Scrittori per il 99%
Ma come è nato? A quali esperienze si è richiamato? E soprattutto come ha funzionato concretamente? Quali strutture organizzative si è dato? Quali forme di lotta ha adottato? In che modo trascorrevano le giornate a Zuccotti Park durante i mesi dell’occupazione? A queste e a molte altre domande offre una risposta Occupy Wall Street (Feltrinelli, pp. 223, euro 16) libro prodotto, sia nella fase di ricerca che in quella di scrittura vera e propria, da una «sessantina di persone circa (studenti e insegnanti, scrittori e artisti, operai e professionisti, donne, uomini, persone di colore, bianche, anziani, giovani)», come si definiscono loro stessi, e che hanno scelto il nome di «Scrittori per il 99%». Non si tratta del testo ufficiale del movimento, anzi, come sottolineano gli autori nell’introduzione, il progetto è stato respinto dall’assemblea del gruppo di lavoro a cui era stato sottoposto. Alcune persone, però, hanno deciso di andare avanti lo stesso, offrendo questa visione del movimento dall’interno, ripercorrendo la storia della sua nascita e di quei mesi di occupazione. Attualmente il testo negli Stati Uniti è disponibile solo nella versione e-book, la sua uscita in volume è prevista per il 3 aprile 2012.
In primo luogo, leggendo il libro, emerge come il movimento americano si ritenga legato ad altre esperienze similari avvenute in altre parti del mondo, ovvero la cosiddetta primavera araba, innanzi tutto, e poi quella degli indignados spagnoli. Insomma, per dirla in sintesi: primavera araba, estate europea, autunno americano. Inoltre, l’occupazione a New York non nasce come un fulmine a ciel sereno, ma vi erano già stati segnali importanti, a partire dalle proteste contro i tagli alla spesa sociale e le limitazioni ai diritti di contrattazione collettiva nel Wisconsin a febbraio e dalla cosiddetta «Bloombergville», ovvero l’occupazione dell’angolo fra Broadway e Park, vicino al municipio di New York, contro altri tagli alla spesa sociale che avrebbero colpito soprattutto insegnanti e pompieri, proposti dal sindaco Bloomberg a giugno.
E poi, dopo una serie di assemblee tenutesi tra agosto e l’inizio di settembre, arriva il momento della manifestazione del 17 settembre a Wall Street. Da qui scatterà l’occupazione di Zuccotti Park, in realtà seconda scelta dei manifestanti che avrebbero voluto occupare Chase Manhattan Plaza, la quale, però, era stata completamente transennata dalla polizia. Parte così un’esperienza che ben presto viene replicata in tanti altri posti negli Stati Uniti e nel mondo, nelle piccole città così come nei grandi centri, e che vede crescere sempre più l’attenzione, l’interesse, il sostegno nei suoi confronti.
Gruppi in fusione
Nel libro vengono descritte davvero bene le pratiche di democrazia diretta messe in atto dagli occupanti, i loro modelli decisionali, le forme dell’organizzazione, anche rispetto ai problemi quotidiani. A tratti pare quasi di assistere a un’assemblea generale, con il lavoro dei facilitatori, l’uso del microfono umano – una sorta di passaparola, in cui ciascuno ripete le parole dette per farle arrivare a tutti – l’utilizzo di gesti da parte del pubblico per ostentare sostegno, indifferenza o disaccordo con chi parla. Si comprende l’attività dei vari gruppi di lavoro, quella della biblioteca popolare, dei medici e degli avvocati, del banchetto di informazioni, della cucina. Sembra di vedere i luoghi dell’occupazione.
Zuccotti Park, innanzi tutto, con i vari accampamenti, l’«Albero della Vita», il gruppo di percussionisti del Pulse, le cyclette collegate ai generatori per ottenere energia elettrica, i gruppi yoga o di meditazione e quelli di attivisti e rivoluzionari, i curiosi e i turisti che gironzolano. E l’edificio al 60 di Wall Street, con il suo atrio, le riunioni e le assemblee, le sedie spostate in circolo dai vari gruppi. Si assiste alla fantasia creativa degli occupanti che, ad esempio, quando la polizia vieta l’uso dei cartelli, scrivono i loro slogan sui cartoni per la pizza. Si partecipa quasi alle manifestazioni, da quella sul ponte di Brooklyn a quella a Times Square, dove ai manifestanti si uniscono zombie e personaggi dei fumetti, ovvero i partecipanti a due convention che si tenevano in quel giorno.
L’incerto futuro
Né il libro nasconde le divisioni e le contrapposizioni che attraversano il movimento. Da quella, anche geografica, dato che divideva l’accampamento in due zone, ovvero quella occidentale occupata dagli elementi e dai gruppi più radicali, rivoluzionari e quella orientale, base dei riformisti più moderati. A quella che all’interno di un’occupazione così variegata, espressione anche delle contraddizioni della società non poteva mancare di emergere, ovvero la questione razziale, con il pericolo di emarginazione delle minoranze. E, naturalmente, non può mancare e non manca la cronaca dello sgombero dell’accampamento, avvenuta il 15 novembre verso l’una di notte, con il suo codazzo di distruzioni – di libri, oggetti vari, strumenti medici – gratuite da parte della polizia. Uno degli ultimi capitoli di Occupy Wall Street, però, è significativamente intitolato Il futuro dell’occupazione, un futuro che, almeno per ora nel momento in cui scriviamo (frase ricorrente all’interno del libro), sembra essere ancora presente. Basta soltanto collegarsi aoccupywallst.org[1] per rendersene conto.
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