Le Metafore della Memoria

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Cappa. Lo studio scientifico della memoria non gode di un privilegio particolare rispetto a un approccio letterario o artistico su un oggetto che poi non è neanche necessariamente lo stesso. La definizione più generale che si può dare dal punto di vista scientifico è che si tratta di qualunque cosa che lascia una traccia a livello della nostra mente, del nostro cervello. Si può scendere a un livello estremamente semplice, addirittura cellulare: se espongo ripetutamente una cellula a uno stimolo la sua risposta allo stimolo diminuisce e questo indica che c’è stato un apprendimento, conseguenza di qualcosa che è arrivato dall’esterno. Da qui si sale fino al livello della memoria autobiografica, che invece è un fenomeno estremamente complesso e che possiamo pensare di studiare solo negli esseri umani, perché presuppone il linguaggio. L’una e l’altra memoria condividono il principio di base, generalissimo, che ci sono eventi che lasciano una traccia. Ma abbracciano una varietà  enorme di concetti, tanto è vero che adesso si parla di “memorie” più che di memoria. 
Scianna. Questo discorso della traccia riguarda molto il mio lavoro. Io penso che la fotografia abbia costituito nella vicenda culturale umana una rottura quasi di carattere copernicano. Per la prima volta ci troviamo di fronte a immagini che non sono fatte dall’uomo, ma che sono prelevate dal reale, che sono appunto traccia di qualcosa. E sono qualcosa di estremamente obiettivo e allo stesso tempo ambiguo. È come se la fotografia avesse potuto realizzare il sogno faustiano di fermare il tempo anche solo per un attimo. La fotografia non è solo una fetta di spazio, ma anche una fetta di tempo. E penso che questo abbia cambiato enormemente il nostro modo di riferirci alla memoria. Lei dice “traccia”. Io nel mio archivio, nel mio “magazzino”, ho più di un milione e duecentomila immagini, ma se le mettiamo tutte insieme arrivano a rappresentare un paio d’ore della vita delle persone che vi sono ritratte. Eppure io ci ho messo cinquant’anni a farle. Ma sono poi un vero magazzino, indipendente da noi, che ci si ripresenta tale e quale in ogni momento, come quando lo abbiamo lasciato? A me pare che con le fotografie non funzioni così. 
Cappa. In effetti una cosa che io dico sempre agli studenti è che la memoria non è una fotografia. Perché la metafora della fotografia è molto facile, c’è l’idea che il ricordo sia in qualche modo un oggetto immagazzinato, mentre non è affatto così. La memoria è un processo ricostruttivo dove c’è l’informazione arrivata dal mondo esterno che ha lasciato una traccia, ma c’è soprattutto l’attività  del nostro cervello, basata sulle nostre conoscenze preesistenti, sulle nostre aspettative e così via che porta alla costruzione del ricordo. Quindi il ricordo può essere più o meno fedele, ma non è mai una fotografia nel senso banale del termine, cioè una riproduzione di uno stato di cose del mondo esterno. Ci sono tantissimi dati sperimentali che ci dicono come sia facile, facilissimo, indurre falsi ricordi in persone assolutamente normali. Quindi la memoria non è una fotografia. Anche se lei adesso mi sta dicendo che neanche la fotografia è in realtà  una fotografia… 
Scianna. Questo volevo dirle! Nella fotografia c’è una dimensione di traccia; certo, l’obiettività  e l’inoppugnabilità  della foto esistono, ma vengono continuamente rimesse in discussione. Io penso che noi guardiamo alle fotografie esattamente come recuperiamo i nostri ricordi: le guardiamo nel presente, le ricordiamo nel presente, aggiungendo tutto ciò che ha a che fare con il momento in cui le guardiamo, a partire dal motivo stesso per cui le prendiamo in mano. Insomma, non torniamo al momento in cui la foto è stata scattata. 
Cappa. Sì, anche il ricordo si riforma ogni volta che lo evochiamo. una delle cose che hanno indicato queste ricerche è che non esiste una sede del ricordo, i ricordi emergono recuperando una serie di informazioni che sono distribuite. È una specie di motore di ricerca, se si vuole usare una metafora. Questo motore ricerca l’informazione e la ricostruisce, sulla base di tanti fattori legati alle situazioni.
Scianna. Mi tolga un’altra curiosità . Perché io sono qui soprattutto per soddisfare le mie tante curiosità . Quello che fate voi con le neuroscienze è come aprire delle finestre sul funzionamento della nostra mente. Una cosa da far girare la testa, è il caso di dire. Però ho l’impressione che scrittori che hanno fatto della memoria la materia stessa del loro scrivere o del loro immaginare, penso a Proust o a Borges, ci abbiano lasciato descrizioni dei meccanismi elaborativi della nostra mente e della memoria per cui spesso leggendo con stupore delle nuove scoperte sembra quasi che loro, senza avere questi strumenti, avessero già  capito. Come se le neuroscienze fossero un modo di confermare cose che gli uomini sapevano già . È così? 
Cappa. Sono completamente d’accordo. Come scienziato e appassionato di letteratura. Noi spieghiamo aspetti molto semplici, i mattoni costitutivi dei processi, non quelli più complessi e interessanti. Per capire come funziona la memoria nel suo insieme le risposte le trova di più nelle opere di letteratura. Portando questioni complesse in meccanismi sperimentali molto semplici, noi possiamo capire cose che magari ci aiutano dal punto di vista pratico. Per esempio dal punto di vista medico. Una delle malattie più importanti di oggi, l’Alzheimer, è un disturbo della memoria. Capirne qualcosa di più potrebbe aiutarci a trovare terapie efficaci. C’è anche un settore chiamato “educational neuroscience”, neuroscienze per l’educazione, che è interessante. Ma per ora, se dovessi dire che ci sono risultati delle neuroscienze che hanno un qualche impatto sull’educazione ne saprei citare pochissimi, forse il fatto che gli studi hanno confermato che i disturbi dell’apprendimento abbiano un’origine neurologica e non psicologica. Questo secondo me è un contributo essenziale.
Scianna. Non da poco! 
Cappa. Sì, non è un contributo da poco. Ma se dovessi dire che le neuroscienze hanno qualcosa da dirci su come insegnare le lingue, credo di no… 
Scianna. A proposito di Alzheimer, io ho l’impressione che il concetto di memoria sia profondamente legato a quello di oblio. Se io penso alla fotografia, posso dire come si fanno o no certe foto, come si sceglie l’inquadratura, e questa forse può essere una metafora di come viene tagliata la realtà  per immagazzinarne solo un pezzo, perché tutto non sarebbe possibile. La fotografia ha questa caratteristica tecnica, che registra in qualche modo quello che c’è. Ricordi che sono consegnati a una tecnica. Noi per esempio possiamo non ricordarci di come eravamo bambini, ma abbiamo la possibilità  di saperlo attraverso una foto. Si è creato una sorta di deposito di ricordi che sono fuori di noi, ma che finiscono per entrare in rapporto con la nostra coscienza.


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