Le mani delle banche sull’America

by Editore | 6 Marzo 2012 11:31

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La metafora portante, introdotta dalla prima canzone, We Take Care of Our Own, è New Orleans e l’uragano Katrina: la crisi attuale è come il momento terribile in cui i rifugiati dall’uragano erano ammassati del Superdome (il grande palazzo dello sport di New Orleans), lasciati a se stessi, senza soccorsi. Ci sono state violenza e morti, ma alla fine per sopravvivere hanno dovuto trovare un modo di stare insieme e di cavarsela da soli (non è semplice tradurre we take care of our own. Ce la caviamo da soli, ci aiutiamo fra noi, insieme ce la faremo… ). Come a New Orleans nell’uragano, è inutile aspettare che venga qualcuno a salvarci – non c’è nessun «arrivano i nostri»: «la cavalleria è rimasta a casa, non si sentono squilli di trombe». Non dobbiamo contare che sulle nostre forze.
«Certe volte il domani arriva intriso di tesoro e di sangue; siamo sopravvissuti alla siccità , adesso sopravviveremo all’alluvione; so fare tutti i mestieri, ce la caveremo» (Jack of All Trades). La capacità  di risollevarsi dalle crisi e dalle catastrofi contando sulle proprie forze è un grande tema americano che affonda nella letteratura, nel cinema, nella letteratura degli anni ’30 e della Grande Depressione. Da Furore di Steinbeck e John Ford alle Dustbowl Ballads di Woody Guthrie (Springsteen ha dedicato un disco a Tom Joad, protagonista di Furore; e Jack of All Trades è intrisa di riferimenti a Guthrie) fino a Via col Vento di Margaret Mitchell e Victor Fleming, le tempeste di polvere, le alluvioni, persino la Guerra Civile sono tutte metafore di catastrofi che sfidano la nostra sopravvivenza. È un immaginario condiviso, a sinistra in termini di solidarietà  (Steinbeck, Guthrie) come a destra in termini di egoismo («dovessi rubare o uccidere, non avrò fame mai più: Scarlet O’Hara in Via col Vento). Ma proprio questa ambiguità  permette a chi lo evoca di parlare a tutti, non solo a chi è già  d’accordo, e magari di spostare qualche sensibilità , proporre altri significati. 
Negli Stati uniti infatti il conflitto culturale e politico non avviene fra sistemi simbolici contrapposti, ma sul significato di simboli condivisi – chi decide che cosa significano la patria, la religione, la bandiera, la libertà , e a chi appartengono? Bruce Springsteen questo lo ha capito fin da Born in the Usa , e qui lo sviluppa dando a questa narrativa condivisa e contesa una declinazione democratica, progressista, direi anche di classe: quello che ci permetterà  di uscire dalla crisi di oggi non sarà  la guerra di tutti contro tutti (come nei primi momenti del Superdome) ma la capacità  di riconoscerci come simili, la solidarietà , la visione del futuro. La bandiera, pure subito evocata, non è il simbolo che ci separa dagli altri, ma quello che ci unisce fra noi – e infatti sta insieme ad altri simboli: il lavoro, la pala piantata nella terra («la figlia della libertà  è una camicia sudata»); la memoria, la catena che legava fra loro gli schiavi e i forzati, che li opprimeva e li univa (Shackled and Drawn); la socialità  proletaria del baseball e della birra (Wrecking Ball). 
La risorsa su cui contare dunque è una cultura operaia fatta di lavoro, di comunità , di fede e di affetti – altri simboli condivisi e contesi in un’ambiguità  tutta da sciogliere. Nella contorta America degli ultimi quarant’anni, certi simboli proletari hanno preso un giro di destra, contrapponendo la virtù della laboriosità  operaia alla presunta fannullaggine degli hippies, dei neri e degli immigrati, che vivrebbero di sussidi e di welfare (e guarda caso, il lavoro è uno degli immensi silenzi della controcultura e di quasi tutto il rock). Persino la frase chiave – we take care of our own – si potrebbe leggere in questo modo: ci occupiamo noi della gente nostra, e gli altri vadano al diavolo. 
E invece Bruce Springsteen spiega che tutte queste cose significano esattamente il contrario. Uno dei brani più sorprendenti, We Are Alive, ha anch’esso ha a che fare con New Orleans, luogo per eccellenza del gotico, dei vampiri e del voodoo (dal Bacio della pantera a Intervista col Vampiro). Springsteen sguazza in questa tradizione, per capovolgerne il senso: quelli che dalle tombe nel gotico cimitero notturno ci gridano «siamo vivi» non sono vampiri, ma sono gli spiriti e le anime dei migranti morti abbandonati nel deserto dell’Arizona, delle bambine nere uccise da una bomba razzista a Birmingham, Alabama nel 1963, e degli operai che nel 1877 diedero vita al primo sciopero generale della storia americana. I primi due sono riferimenti canonici; ma il terzo è sorprendente: la storia del movimento operaio, il grande sciopero insurrezionale del 1877, sono cancellati dai libri di scuola e dal discorso pubblico. Per saperne qualcosa bisogna aver letto, se non Sciopero di Jeremy Brecher, almeno Storia del popolo americano di Howard Zinn. 
Ora, quello che continua a stupire in Bruce Springsteen, arrivato ormai a sessant’anni, è la sua inesauribile capacità  di imparare. Mi ricordo il modo in cui spiegava This Land Is Your Land – «ho letto un libro…», quanti sono i rocchettari che parlano di libri dal palco dei concerti? Metà  di The Ghost of Tom Joad viene da un altro libro, e l’altra metà  viene da un film tratto da un libro. In questo disco, Springsteen intreccia la conoscenza della storia sociale con quella di tutta la tradizione musicale americana. Per Rocky Ground si ispira a un brano del Sacred Harp (una forma arcaica di polifonia sacra ancora diffusa nel Sud), e lo campiona da una registrazione sul campo di Alan Lomax negli anni ’50; usa i suoni delle canzoni antimilitariste irlandesi per denunciare la guerra senz’armi e pure mortale di speculatori e banchieri; richiama continuamente Woody Guthrie («i giocatori d’azzardo ingrassano, i lavoratori sono sempre più smunti» è una citazione diretta; in American Land, la figura dei migranti morti nelle fabbriche e nei campi e dei loro nomi perduti viene da Deportee, una canzone di Guthrie che anche lui ha inciso). Land of Hopes and Dreams (recuperata anche in omaggio al sax dell’insostituibile Clarence Clemmons) riscrive e rovescia una canzone gospel amata da Guthrie come da Big Bill Broonzy – this train… Loro dicevano: «questo treno non porta giocatori d’azzardo, non porta puttane…» E lui invece: «questo treno porta puttane, porta giocatori, porta vincitori e perdenti». Sul treno di Bruce c’è posto per tutti. Questa è la sua gente, our own.
Soprattutto, American Land. Anche qui, si passa per le Seeger Sessions: è una canzone di immigrazione slovacca di inizio secolo, che Pete Seeger ha tradotto e inciso mezzo secolo fa. Springsteen riprende la prima strofa – «che cos’è quest’America, perché tutti ci vanno? Ci andrò anch’io finché sono giovane, ci ritroveremo laggiù nella terra americana». La canzone tradizionale finiva in tragedia – quando lei finalmente lo raggiunge, trova che è morto in fabbrica e nella terra americana lo possono solo seppellire. Springsteen allarga il discorso: gli immigrati immaginano un terra coi diamanti nelle strade e la birra che esce dai rubinetti, ma dopo che si sono ammazzati per costruirla con le loro mani l’America continua a reprimerli e ignorarli. Questa gente ha cognomi greci, irlandesi, slavi, italiani – e il cognome italiano che cita è Zerilli, il cognome di sua madre. Ecco chi è our own per Bruce Springsteen: i migranti come i suoi nonni, gli operai come suo padre. La storia che continua a imparare è la sua. 
Questo però non è un saggio storico o politico – è rock and roll. Ma fino dagli inizi della sua carriera, Springsteen ha trattato il rock and roll come musica tradizionale, folk music del nostro tempo, eredità  culturale della sua generazione e della sua classe. Anche per questo -, come sempre è avvenuto nella storia del rock and roll, ibrido di blues, gospel, country, bluegrass, pop – è capace di integrarci dentro tutta la storia in musica del popolo americano, dal Sacred Harp a Woody Gutrhrie, dal blues e gospel alle canzoni dei migranti. We take care of our own significa anche questo: non ci dimentichiamo di quello che è nostro, perché è grazie a questo che we are alive, siamo vivi nonostante tutto.

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