Lavoro, «modello tedesco» per la riforma dell’articolo 18

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ROMA — «Modello tedesco» per i licenziamenti e un percorso negoziale che consenta alla Cgil di stare al tavolo fino all’ultimo momento. L’esecutivo Monti procede per tappe nella trattativa sulla riforma del mercato del lavoro che dovrà  concludersi entro una decina di giorni. Il round di oggi pomeriggio, il sesto presso il ministero del Lavoro, tra governo e parti sociali, non sarà  quello decisivo ma servirà  a mettere alcuni punti fermi sui contratti e gli ammortizzatori sociali, la parte dell’accordo che divide di meno.
Articolo 18 
Il punto di caduta finale non c’è ancora ma va profilandosi. «Ci sarebbero le condizioni per firmare l’accordo» ha detto ieri il leader Uil, Luigi Angeletti. Si sta trattando, e il premier Mario Monti è intervenuto per trovare quelle risorse, un paio di miliardi, che la Ragioneria lesina. L’articolo 18 è in fondo a questo percorso, ci saranno ancora incontri riservati, ma lo schema che il governo e le parti più concilianti hanno predisposto è tripartito: l’articolo 18, così com’è, resterebbe solo per i licenziamenti discriminatori. Per i licenziamenti economici, secondo la proposta del leader della Cisl, Raffaele Bonanni, è previsto un controllo da parte del giudice limitato alla verifica che non si tratti di un licenziamento discriminatorio. Ma il giudice non potrà  sindacare sull’effettività  del motivo economico-organizzativo. Il licenziamento seguirà  una procedura sindacale e non ci sarà  un diritto al reintegro ma solo a un congruo indennizzo.
La non firma
Il terzo tipo di licenziamento è quello chiesto dalle imprese e riguarda i motivi disciplinari: in questo caso oggi il lavoratore, se il giudice ritiene che non esista il giustificato motivo, ottiene reintegro e indennizzo. Con la riforma invece avrebbe diritto, a discrezione del giudice, al reintegro o all’indennizzo fino a 18 mensilità , secondo il modello tedesco. Ma le nuove norme varrebbero solo per i nuovi assunti? Si sta affacciando l’idea che possano valere senz’altro per i nuovi assunti e tra un paio d’anni, a crisi superata, anche per i vecchi. Un modo per evitare il doppio regime. Su tutta questa partita sembra difficile ottenere il consenso della Cgil, che però potrebbe restare al tavolo fino alla fine per negoziare tutta una serie di istituti che le consentano, pur non firmando l’accordo, di non strappare e riconoscere parzialmente la bontà  dell’intesa. Una modalità  che toglierebbe il Pd dall’imbarazzo di dover votare una riforma su cui la Cgil chiamasse invece lo sciopero generale che il leader della Cgil, Susanna Camusso, in un’intervista al Corriere, ha comunque escluso.
Le richieste della Cgil
Ma cosa chiede il sindacato di Camusso al governo per non strappare? Nel pacchetto la Cgil vorrebbe ritrovare una norma sulla rappresentanza sindacale che tiri la Fiom fuori dalle secche, dove è finita con la Fiat, uno stop alle dimissioni in bianco per le donne, misure di conciliazione lavoro-famiglia, un contrasto efficace all’abuso del lavoro precario e garanzie per i lavoratori «esodati», penalizzati dalla riforma delle pensioni.
Gli ammortizzatori Da dove verranno le risorse per la riforma degli ammortizzatori sociali non è ancora chiaro, ma il governo vorrebbe rendere strutturali, con una voce in bilancio, quelle che per il 2012 e il 2013 serviranno alla cassa in deroga, pari a un paio di miliardi. Lo schema è quello su due pilastri: cassa integrazione ordinaria e indennità  di disoccupazione, il cui tetto verrebbe alzato. La cassa integrazione straordinaria, che i sindacati vorrebbero mantenere, non sarebbe prevista. Il trattamento di disoccupazione potrebbe invece allungarsi, a carico delle imprese, dopo il primo anno se il lavoratore non sarà  stato ricollocato.
I contratti
Disboscare la giungla contrattuale per eliminare sacche di precarietà  resta l’obiettivo. L’apprendistato sarà  la forma contrattuale prevalente per l’ingresso al lavoro e il contratto di reinserimento per il reimpiego. I contratti che portano precarietà  saranno resi meno convenienti con disincentivi contributivi.


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