L’apprendista: un contratto per imparare il mestiere, che spesso diventa sfruttamento. E in tre anni ha avuto un calo del 16%. Ma ora è al centro della riforma del lavoro

by Editore | 15 Marzo 2012 7:54

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TORINO – Dice che gli ha insegnato tutto. Che è stato il suo maestro. La prova? «È l’unico collega che frequento ancora oggi, sei anni dopo». Angelo parla di «un’età  dell’oro. Quei primi due anni nell’ufficio programmazione della produzione in una piccola azienda metalmeccanica vicino a Torino. Lui mi diceva: “Scegli che cosa fare, se sbagli ci sediamo intorno al tavolo e ti spiego perché”. Per me è stato un maestro». L’apprendistato può essere un piacere, la soddisfazione di trasmettere un mestiere, l’orgoglio di impararlo. E viceversa. Poi, otto anni dopo, diventa un trucco. Angelo ha conosciuto anche l’altra faccia della medaglia: «Oggi ho quasi 30 anni. Sono apprendista da otto. Dirigo un ufficio ma l’azienda preferisce continuare a tenermi con lo stesso inquadramento di quando imparavo. Il contratto mi scade l’anno prossimo». E dopo? «Vittoria, se mi assumono. O catastrofe se mi fanno fuori». In quel caso Angelo ha un piano B: «Ho dei parenti a Chicago».
Le statistiche dicono che l’apprendistato, quello sul quale sta puntando la riforma Fornero per aprire le porte del lavoro ai giovani, sta perdendo appeal. «Ci sono forme contrattuali che vanno più forte, le aziende le considerano più vantaggiose», dice Ilaria Lani, responsabile dei giovani della Cgil. Nel triennio 2008-2010 il numero degli apprendisti è sceso in Italia da 645 mila a 541 mila, un calo del 16 per cento. Colpa della crisi? Non solo. Perché nello stesso periodo il numero delle persone che lavorano con contratti a stage è passato da 305 a 310 mila. La differenza è che l’apprendistato prevede agevolazioni fiscali per le aziende ma ha il difetto che bisogna pagare bene i lavoratori. «Mentre lo stage – osserva Lani – spesso non è proprio retribuito o è pagato con cifre simboliche. Per far aumentare il ricorso all’apprendistato bisognerebbe abolire contratti che si traducono in vere e proprie forme di sfruttamento. Non c’è solo lo stage. C’è anche, ad esempio, l’associazione in partecipazione». 
Tamara Casula ha lavorato per nove mesi per un grande gruppo dell’intimo. Ufficialmente era «responsabile del punto vendita», in un centro commerciale di Bologna. «Eravamo in due ad avere un contratto di associazione in partecipazione. Non c’era stipendio ma ci pagavano una quota degli utili. Mi davano 1.030 euro al mese per lavorare tra le 40 e le 50 ore alla settimana. Quando gli ho fatto causa mi hanno spiegato che quei soldi erano un anticipo sui profitti della società . Purtroppo però quell’anno c’era stata una perdita di 11.000 euro e avrei dovuto metterceli io. Avevo una ragazza apprendista che lavorava con me. In teoria io ero il suo tutor. Ho partecipato a un corso che avrebbe dovuto durare 20 ore. Dopo le prime 4 era già  finito. Mi hanno detto: ‘Ecco il certificato, adesso sei un tutor’». Oggi Tamara, insieme al Nidil Cgil di Bologna ha fatto causa all’azienda dell’intimo. Il processo inizierà  a maggio: «Voglio dimostrare che ero in realtà  un lavoratore dipendente, altro che associazione in partecipazione. E che il mio ruolo di tutor della ragazza apprendista era pura finzione».
Non è sempre così, naturalmente. Ad Alessio, 23 anni di Torino, è andata bene: «Lavoro in una piccola azienda metalmeccanica. Ho trovato il posto spedendo un curriculum a un sito internet. Faccio i turni, notte compresa, e porto a casa 1.500 euro al mese. Mi considero fortunato anche se di corsi di formazione, dopo un anno e quattro mesi, non ne ho visti. Ho fatto solo quelli che l’azienda impone a tutti per spiegare come si devono svolgere le singole mansioni». Alessio guadagna abbastanza bene: «Gli unici problemi sono legati alla notte, che mi impedisce certe volte di incontrarmi con gli amici, e alla scadenza del contratto di apprendistato tra due anni. Che cosa succederà  dopo?».
Francesca Melagrana, operatrice della Fim-Cisl di Torino, spiega che «anche i tre-quattro anni di durata dell’apprendistato sono spesso considerati dalle aziende un periodo troppo lungo, un vincolo. Le imprese preferiscono potersi liberare dei dipendenti più in fretta se è necessario. Così puntano sui contratti atipici, quelli con le agenzie del lavoro interinale. In questo modo, diciamolo, i dipendenti sono più ricattabili». Il sindacato di Francesca sta cercando di correre ai ripari: «Nei contratti aziendali proviamo a mettere un tetto alle forme di lavoro più precario, una percentuale sulle assunzioni non si può superare. Ma non è facile ottenerlo».
Sul versante opposto della pianura Padana il quadro è simile. Nel ricco Veneto del piccolo è bello e autonomo è meglio, l’apprendistato è spesso una delle tante forme di precariato, solo un po’ meno instabile: «Su cento apprendisti che iniziano il percorso di tre-quattro anni di lavoro – spiega il responsabile lavoro della Cgil regionale, Fabrizio Maritan – una quarantina lasciano prima della fine. Lo fanno con dimissioni che spesso non sono affatto spontanee ma imposte dalle stesse aziende. Dei sessanta che rimangono, solo metà  vengono assunti a tempo indeterminato. Gli altri rimangono senza lavoro con un attestato. In tutto, sui cento apprendisti iniziali solo 30 hanno trovato un lavoro». Quanta formazione abbiano davvero avuto quegli apprendisti è il secondo tasto dolente: «Spesso – spiega Maritan – i corsi non ci sono o sono scarsi perché sono affidati ai finanziamenti e all’iniziativa delle Regioni». La crisi dei bilanci degli enti locali non aiuta. 
E’ possibile immaginare che da questo quadro disastrato si esca rapidamente trasformando l’apprendistato nella forma principale di assunzione dei giovani nelle aziende? Questa è la scommessa della riforma e questa potrebbe essere la soluzione che unisce la necessità  di imparare un mestiere a quella di uscire dalla disoccupazione. «A patto – confermano all’unisono i sindacalisti di Cisl e Cgil – che si aboliscano le mille finzioni escogitate dalle aziende». L’ufficio giovani della Cgil calcola che «il 70 per cento dei contratti di collaborazione e delle partite Iva siano in realtà  forme di lavoro falsamente autonomo. Quando un ragazzo con la partita Iva o con un contratto di collaborazione ha un solo committente, quello non è un lavoratore autonomo, è un lavoratore dipendente mascherato». Bisogna impedire che anche l’apprendistato venga utilizzato nella stessa maniera. Francesco Maritan sorride amaramente: «Recentemente fuori da un negozio di Venezia ho visto un cartello: ‘Cercasi apprendista con esperienza’». 
Utilizzare gli apprendisti in questo modo può far male non solo a loro ma a tutti. Torniamo ad Angelo e al suo piano B. Davvero se non ti assumessero alla fine dell’apprendistato andresti a Chicago? «A Chicago o comunque all’estero. In questi otto anni italiani ho lavorato per tre aziende e ho svolto, sempre come apprendista, mansioni diverse. Oltre a programmare la produzione ho fatto per un anno e mezzo il responsabile del magazzino di un’azienda e ora lavoro agli acquisti in un’altra. Se non mi confermeranno me ne andrò certamente. Per trovare un lavoro qualunque è meglio cercarlo all’estero. Ci sono più possibilità . Senza assunzione dovrei andare in un’altra azienda italiana e ricominciare da zero. Mi chiederebbero se ho avuto esperienze di lavoro precedenti e io dovrei spiegare che ho svolto mansioni di responsabilità  anche se dai documenti risulta che ho fatto solo l’apprendista. Pensi che ci crederebbero? Naturalmente no. E allora per cercare un lavoretto meglio ricominciare a fare il muratore a Chicago». Quale riforma impedirà  ad Angelo di volare oltre l’Atlantico?

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