L’altra dimensione civile nella durezza del dialetto

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C’è una coerenza tra questo e quello, ma va ricordato che innanzitutto venne il poeta, la cui prima ispirazione nacque non a caso durante la prigionia nel lager di Troisdorf in Germania: lì Guerra cominciò a scrivere nel vernacolo natio — la stessa variante romagnola, piuttosto aspra e periferica, dei poeti Nino Pedretti e Raffaello Baldini — forse trascinato dalla nostalgia e dal dolore dell’esilio, ma anche spinto da altri prigionieri che gli chiedevano di «sollevarli dal grigiore terribile del quotidiano», di «fare tagliatelle con le parole». 
«Per tutta la vita sono stato un poeta», ha detto Guerra in una bella intervista di Malcom Pagani, «ho fatto anche altro, ma è stato come travestirsi». La prima raccolta, I scarabà³cc, esce nel 1946 con la prefazione di Carlo Bo, ricevendo il consenso di Pasolini, che fu tra i suoi primi estimatori e cui si deve la definizione dei paesaggi di Guerra come «luoghi rasi dall’angoscia, fatti anonimi». Il realismo, l’aspetto cronachistico e civile di quelle prove giovanili, sono caratteri piuttosto insoliti nella lirica coeva, e coincidono invece con le contemporanee tendenze narrative. Alla smilza raccolta d’esordio si aggiungono La sciuptèda (1950) e Lunario (1954), che andranno a confluire, tutte insieme, nel volume I bu (I buoi, 1972, con versione a fronte di Roberto Roversi). La durezza del dialetto viene accentuata dallo stile essenziale, dal lessico ridotto, quasi elementare, preciso, aderente agli oggetti e povero di aggettivazione, per restituire un paesaggio naturale e umano arcaico, ripulito di qualunque tentazione idilliaca o patetica, anzi, grazie alla secchezza, caricato di angoscia e di nevrosi: una terra di emarginazione e di povertà , soggetta alla fatica, a una perenne sofferenza, narrata da un narratore esterno in terza persona o da un noi che sottolinea il distanziamento emotivo ma fa emergere ancora di più tutta l’inquietudine e l’angoscia. Fatica, angoscia, durezza sono quelle che Guerra ricordava di aver vissuto da bambino, con genitori analfabeti, che si muovevano da Santarcangelo prima a cavallo poi su una camionetta per vendere frutta e verdura nei paesi vicini. 
Un realismo sobrio, «crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo», l’ha definito Pier Vincenzo Mengaldo: è stato invece Gianfranco Contini, che tra i primi ha apprezzato la poesia di Guerra, a evidenziarne il colore intimista (evocando i conterranei Pascoli e Moretti) e insieme gli accenti più impegnati e la coscienza politica ben radicata nella regione «rossa». In questa «materia esistenziale frantumata ed espressa per intermittenze» (sempre Mengaldo), compaiono vecchi, mendicanti (vècc e pori), mattoidi, bestie malate e distrutte dalla fatica, residui, relitti a margine del latifondo, delle proprietà  dei ricchi. Un’umanità  che può solo sognare un bagno di sangue come riscatto, e semmai dar sfogo a quel desiderio con il furore verbale. 
La prima fase poetica di Guerra è caratterizzata da componimenti brevi e metricamente regolari, mentre nel secondo periodo, ben distanziato dal primo dopo le esperienze cinematografiche, si afferma il poemetto con andamento narrativo: siamo già  negli anni 80 (Il mieleLa capanna, Il viaggio) e il motivo ricorrente è il desiderio di ritornare al paese delle origini con l’illusione di trovarvi un confortante rifugio. Alla componente realistica, si affiancano atmosfere magico-oniriche, già  presenti, ma in dosi più lievi, nelle prime raccolte (e poi appunto apparse anche nelle opere cinematografiche, Amarcord in testa): motivi che si coagulano in immagini-chiave, come il polverone turbinoso, il colore bianco della fioritura dei ciliegi, il volo libero delle farfalle. 
Chi voglia assimilare l’adozione del dialetto all’intento di un’esaltazione campanilistica o al recupero archeologico in chiave erudita, si sbaglia di grosso. Per Guerra, il vernacolo è materia pulsante che si mantiene vitale finché è vivo il mondo che lo veicola. Con risultati meno originali, forse più didascalici e più apertamente sociologici, Guerra si è esercitato, in parallelo, anche nella prosa narrativa: nel ’52 esordisce nel romanzo con La storia di Fortunato (edito nel ’52 nei Gettoni einaudiani), cui segue Dopo i leoni (1956 sempre nei Gettoni), che interpreta, secondo le parole di Vittorini, «l’irrequietezza sentimentale tipica della gioventù senza mestiere e classe del dopoguerra». Altri romanzi verranno (L’uomo parallelo del 1968 mette in scena un io diviso, schizoide, un po’ nel solco di un certo neosperimentalismo), ma il meglio rimane la vena lirica: anche quando viene declinata in prosa, come nei frammenti de Il polverone (1978), o ne I guardatori della luna (1981), breviario di «viaggi sognati, viaggi della mente, viaggi del cuore, viaggi reali» (Roversi). 
Notevolissimo il ritorno al dialetto, con Il libro delle chiese abbandonate (1988), frammenti di prosa lirica che illuminano per rapidissimi flash luoghi, personaggi, momenti sopravvissuti alla memoria, paesaggi irreali e decrepiti, segnali di vita sepolti nelle rovine.
Va infine ricordato che c’è anche un Guerra più avventuroso e picaresco: è quello che, con Luigi Malerba, si è spinto verso la favola comico-surreale, scrivendo a quattro mani sei volumi che hanno per protagonista il cavaliere senza cavalcatura e mercenario disertore Millemosche, deliziose «storie per bambini dagli otto ai novant’anni» ambientate in un Medioevo fantastico.


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