L’emozione di Obama “Se avessi un figlio maschio somiglierebbe a Trayvon”

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«Se avessi un figlio, avrebbe il suo volto», dice Barack Obama, e quel figlio sarebbe stato Trayvon il ragazzo di 17 anni ucciso a rivoltellate in Florida da un «vigilante» armato. Da morto, è diventato suo figlio. Si era tenuto fuori, il sempre cauto e prudente Obama, dalla tragedia di Trayvon Martin, il ragazzino di diciassette anni abbattuto a colpi di pistola su un marciapiedi di Sanford, nell’interno della Florida, da un pattugliatore volontario di ronda, George Zimmerman, al quale Trayvon non era piaciuto. Lo aveva «minacciato», pur non avendo armi da fuoco né lame, ha spiegato ma immediata è stata la domanda: se quel ragazzo fosse stato bianco di pelle, gli avresti sparato?
Ma poiché una legge scellerata del 2005, voluta dall’allora governatore Jeb Bush, quello che passa per il figlio intelligente della nidiata Bush, permette a chiunque di portare un arma e di usarla in caso di «ragionevole sospetto», l’assassino è in libertà . Nessun reato gli è contestabile. L’opinione pubblica, martellata da continui servizi televisivi, fra lacrime e grida, è lacerata. La formidabile lobby dei pistoleros, la Nra, è preoccupata e quasi due milioni di persone stanno affluendo in Internet per proclamare il proprio sdegno e spinge al Congresso perché altri stati adottino la stessa legge da “Selvaggio West” della Florida.
Obama, il primo presidente di sangue anche africano nella storia degli Stati Uniti, non poteva continuare a tacere perché sa meglio di chiunque altro che nell’incontro al buio, fra il “vigilante” e il ragazzino c’è l’intersezione fatale di due tragedie americane: il razzismo inestirpabile, dunque la paura di chi non ha la mia faccia, e il culto demenziale delle armi da fuoco che ha proprio in Florida uno dei suoi più insensati templi e provoca 12 mila morti all’anno. Ha idealmente adottato la vittima, divenuto il figlio che lui non ha mai avuto.
E’ un passo necessario, il suo, quanto rischioso, fare di Trayvor il figlio dello zio Tom, assassinato dall’eterna paura dell’altro. Dietro il sipario della «correttezza politica» nel discorso pubblico, è dal giorno della sua elezione nel 2008 che la diversità  fisica, la straordinaria anomalia obamiana, attizzano il rancore profondo camuffata da opposizione politica. Lui stesso, sapendo bene che cosa brontoli sotto la pelle dell’America peggiore, aveva sempre pubblicamente respinto il sospetto di razzismo nei propri nemici. Aveva sempre evitato con cura, e con successo, di giocare la race card, la carta della propria etnicità , come invece aveva fatto il reverendo Jesse Jackson, una mossa che aiuta quanto condiziona un leader politico.
Ma si può fingere, ignorare e poi la lava erutta dal vulcano sotterraneo. Nell’omicidio di Trayvor, che camminava per strada al fianco di un parente, che non era armato, che soltanto il suo assassino considerava «minaccioso», come minaccioso sembra ogni teenager afro nella notte, la componente razziale è troppo abbagliante per essere ignorata da Obama. Da presidente di tutto, può, e deve, fingere di non leggere i messaggi in codice che da anni e soprattutto oggi in campagna elettorale, gli sono lanciati contro.
Può ignorare le allusioni del fanatico chierichetto della Pennsylvania, Rick Santorum, che rimpiange «la grandezza dell’America prima del 1965», guarda caso l’anno delle rivolte nere e dei diritti civili. Le farneticazioni dei birthers, di coloro che rifiutano di credere al “birth certificate”, al certificato di nascita di Obama e lo definiscono «il kenyano». Gli appelli a «riprenderci l’America», suonano come se lui, il nero, fosse un alieno.
Può non ascoltare il refrain della sua estraneità , della sua diversità , della sua incompetenza pasticciona, ripetuta anche dal moderato Romeny, secondo le classiche caricature dello schiavo pigro, inetto, maldestro. In Alabama e in Mississippi, gli Stati che furono la frontiera calda e sanguinosa della battaglia per i diritti civili, i parlamenti statali dominati dalle fazioni repubblicane più retrive, stanno promuovendo leggi e regolamenti per riportare indietro il calendario e rosicchiare l’accesso alle urne.
Nell’adozione simbolica della vittima, nel farne il proprio figlio, Obama si è dunque riappropriato della propria faccia, della propria pelle, della propria natura. Lo ha fatto parlando dall’altar maggiore della religione civile dell’America, dalla Casa Bianca, in quel Giardino delle Rose dove la moglie Michelle coltiva, insieme con le due figlie, l’orticello di rapanelli e lattuga per mostrarsi famiglia «normale», come se ci fossero dubbi. Agli occhi di chi lo odia, ed è impossibile trasmettere l’intensità  dell’odio che in molte aree degli Stati Uniti deforma il suo nome e la sua faccia, caricaturata in manifesti con i tratti della scimmia, questo suo coming out morale, quel suo dichiararsi per quello che è, presenta rischi elettorali evidenti, come anche il suo tacere gli avrebbe alienato l’opinione afro americana. «Tutti dobbiamo cercarci dentro l’anima la spiegazione, la ragione del perché cose di questo genere possano accadere», ha detto dolente Obama. Sapendo benissimo che cosa ci sia nel fondo di molte anime, quelle sì, nere.


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