LA VAL DI SUSA E LE NEW TOWN DELL’AQUILA

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Se questo è il gorgo che ci sta ingoiando, è perché l’Italia da decenni è vittima e ostaggio di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. Un unico modello di sviluppo, una stessa retorica della crescita senza fine governano le “grandi opere”, la nuova urbanizzazione e la speculazione edilizia che spalma di cemento l’intero Paese. Ma su questa idea di crescita grava un gigantesco malinteso. Dovremmo perseguire solo lo sviluppo che coincida col bene comune, generando stabili benefici ai cittadini. è invalsa invece la pessima abitudine di chiamare “sviluppo” ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio. Si scambia in tal modo il mezzo per il fine, e in nome della “crescita” si sdogana qualsiasi progetto, anche i peggiori, senza nemmeno degnarsi di mostrarne la pubblica utilità . A giustificare questa deriva si adducono due argomenti. Il primo è che la redditività  delle “grandi opere” è provata dall’impegno finanziario dei privati; ma si è ben visto (Corte dei conti sulla Tav) che il project financing è uno specchietto per le allodole. Una volta approvato il progetto, i finanziatori spariscono e subentrano fondi statali, accrescendo il debito pubblico. Il secondo argomento, la creazione di posti di lavoro, è inquinato da un meccanismo “a piramide” di appalti e subappalti, tanto più inesorabile quanto più grandi siano le imprese coinvolte e le relative “opere”. Nessuno, intanto, si chiede se non vi siano altri modi di creare o salvaguardare l’occupazione. La Legge Obiettivo del governo Berlusconi, ha scritto Maria Rosa Vittadini, «ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come “opera di preminente interesse nazionale” e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del Cipe. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno “di sistema” nazionale, di qualunque valutazione d’insieme, di qualunque ordine di priorità ».
Questo è il modello di sviluppo dominante negli ultimi decenni, questa la spirale negativa che ci ha condotto alla crisi che attraversiamo. Ma per reagire alla crisi ci vien suggerita una cura omeopatica, a base di ulteriore cemento. Ci lasciamo dietro, intanto, una scia di rovine, nel paesaggio e nella società . Le new towns dell’Aquila si fanno a prezzo di abbandonarne il pregevole centro storico, ridotto a una Pompei del secolo XXI; il passante Tav di Firenze, costosissima variante sotterranea di un assai migliore percorso di superficie, viene scavato sotto la città  senza le dovute certezze sul rischio strutturale e sismico. In Val di Susa, l’irrigidirsi del governo sta provocando una crescente sfiducia nelle istituzioni, certo non temperata dalle “risposte” pubblicate sul sito di Palazzo Chigi. Esse lasciano in ombra troppi punti importanti: per esempio il recentissimo ammodernamento della già  esistente galleria del Fréjus, costato mezzo miliardo di euro; per esempio gli alti rischi di dissesto idrogeologico (come già  accaduto nella tratta Bologna-Firenze); per esempio la reticenza sullo smaltimento dello smarino amiantifero e sui danni alla salute da dispersione delle polveri sottili.
O ancora l’azzardata asserzione che «le tratte in superficie si collocano in aree già  compromesse». Ma il vero capolavoro di questa artefatta verità  è in una frasetta: «Si può dire che il consumo del suolo dell’opera assuma una rilevanza minima se confrontato con i dati del consumo edilizio e urbanistico dei comuni della Val di Susa nel periodo 2000-2006». Complimenti: lo scellerato consumo di suolo da parte dei Comuni non è dunque, per chi ci governa, un errore da stigmatizzare e correggere, bensì una scusante per martoriare ulteriormente la valle. A ragione un recente convegno a Firenze, organizzato da Italia Nostra, si è chiesto se le “grandi opere” siano causa o effetto della crisi economica. Ma una cosa è certa: non ne sono la cura.
Perché un modello di finto sviluppo come questo ha tanta solidità  da esser condiviso da governi d’ogni sorta? La forza d’urto delle lobbies e dei loro affari è essenziale ma non basta. La dominanza di una fallimentare idea di crescita è il rovescio e l’identico della drammatica incapacità  di immaginare per il Paese un modello alternativo di sviluppo, che vinca il muro contro muro delle opposte retoriche della “crescita” e della “de-crescita”. E l’assenza di un progetto per l’Italia del futuro è insieme causa ed effetto della crisi della politica, della fiducia nei partiti scesa sotto l’8%, della somiglianza fra non-progetti “di destra” e non-progetti “di sinistra”. Ma è proprio impossibile immaginare un’Italia ancora capace di vera innovazione, e non solo di cementificazione? Fra finta crescita e de-crescita, esiste una terza strada: una crescita vera, incentrata sull’utilità  sociale e non sui profitti di banche e imprese. Ne esiste, anzi, persino il progetto, che governanti e politici amano dimenticare. Si chiama Costituzione. Ma per una vera crescita nella legalità  e nello spirito della Costituzione, cioè del bene comune, è necessario investire prioritariamente in cultura e non in ponti sullo Stretto, in ricerca e non in incentivi alle imprese che disseminano pale eoliche in valli senza vento, nella scuola e non nei tunnel. È tempo di trasformare in manifesto e progetto quell'”imperativo ecologico” di cui parlava Hans Jonas: di ridare all’Italia un futuro degno della sua storia.


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