LA TECNICA AL POTERE

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Certo, si ammette, esso è stato necessario a salvare il Paese da un baratro economico in cui stava precipitando. Segna comunque un salto di qualità , nel profilo e nello stile dei suoi componenti, rispetto a quello che lo ha preceduto. Ma resta un’eccezione, un’anomalia, che va contenuta in limiti temporali e anche operativi ben definiti. Altrimenti c’è il rischio che prenda il posto della politica, spingendo questa in una posizione marginale e subalterna. Se la sua forza nasce dalla debolezza della politica, si argomenta, il suo stesso successo può avere il risultato di approfondirla, cerando così una pericolosa potenza antipolitica. Cui la politica deve, al più presto possibile, rispondere, preparando la propria rivincita, sostituendosi alla tecnica che ha, nello stato di eccezione verificatosi, preso il suo posto.
C’è in questo ragionamento – che viene da ambienti culturali anche diversi – una preoccupazione comprensibile. Come negare che un’evidente inadeguatezza del ceto politico abbia favorito, se non imposto, un passaggio, e anche un’accelerazione inedita, nel ricambio di governo, guidato con forte assunzione di responsabilità  da parte del capo dello Stato? Ed è anche vero che, comunque la si metta, è difficile immaginare un qualsiasi tipo di democrazia che faccia a meno dei partiti o che li mantenga in stato di perenne minorità . Ma tale considerazione non va assolutamente confusa con la teorizzazione di un contrasto di principio tra politica e tecnica. Basta uno sguardo all’indietro per dissolvere tale ipotesi infondata. Fin dall’inizio della storia moderna, e ancora prima, da quando la politica si è secolarizzata, non è neanche pensabile che essa possa fare a meno della tecnica.
Nonostante la presenza di un filone culturale tenacemente tecnofobo – che ha toccato il culmine negli anni Venti e Trenta del Novecento, vale a dire proprio quando la tecnica conosceva la stagione della sua massima espansione – non solo la grande filosofia politica moderna, ma perfino la tradizione classica hanno sempre riconosciuto il nesso inestricabile tra politica e tecnica. Non è necessario arrivare a Weber – e neanche a Machiavelli – per accorgersi che senza un sapere dei mezzi, qualsiasi fine sarebbe irraggiungibile. Già  Aristotele riconosceva che senza calcolo esatto degli strumenti, dei modi, dei tempi, la vita stessa della polis sarebbe stata in pericolo. Certo lo scopo ultimo della città  è la composizione concorde degli interessi in conformità  con l’idea di giustizia. Ma, perché ci si possa approssimare a tale obiettivo, bisogna mettere in campo un sapere tecnico in assenza del quale esso resta del tutto fuori dalla nostra portata.
Nel mito di Prometeo raccontato nel Protagora, Platone ricorda che tale sapere – necessariamente specialistico – non basta in quanto tale a fondare la polis. Per questo fine superiore Zeus dona agli omini aidos e dike, rispetto e giustizia. Ma, lungi dal contrapporli alle tecniche che già  aveva distribuito loro, li unisce ad esse. È da questo rapporto che nasce la società . Ciò che il mito intendo affermare è che la polis non è qualcosa di astrattamente opposto alla techne, ma da essa deriva e di essa si nutre. Anche se ad essa non è riducibile, anche se il suo fine varca i limiti della tecnica, ma senza mai perdere il contatto con essa. Tutta la grande tradizione filosofica è consapevole di questa necessità , con tutte le contraddizioni che essa comporta. Sa che senza la scienza dei mezzi, la prassi politica resta pura utopia. Virtù politica, secondo Machiavelli, è quella che tiene insieme i due poli, piuttosto che contrapporli. Così come, per Max Weber, vero uomo politico è chi, nonostante la loro differenza, riesce a non separare etica della convinzione ed etica della responsabilità .
Ma se non esiste politica effettuale capace di rinunciare alla tecnica, se la politica ha al proprio interno un irrinunciabile nucleo tecnico, allo stesso modo la tecnica, tutt’altro che opposta ad essa, ha sempre un effetto politico. E ciò perché, come ha spiegato a suo tempo Carl Schmitt, la politica, o il politico, non è un settore come altri della vita umana. Essa è il grado di intensità  dell’unione o della separazione che si produce all’interno di ciascuno di essi. Ogni contrasto nell’ambito religioso, economico o culturale si trasforma in politico se diventa tanto intenso da dividere il terreno comune in due campi opposti e concorrenti. È perciò che, contrariamente a quanto si suppone, la tecnica, come ogni altro settore dell’esperienza, non può essere di per sé apolitica, è necessariamente traversata dal conflitto politico tra interessi e valori contrastanti. “La tecnica – scrive Schmitt – proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità “. Piuttosto che contrapporre la politica alla tecnica, aspettando la rivincita della prima sulla seconda, occorre, anche da noi, orientare il binomio insolubile che esse formano nella direzione di un modello di società  insieme più giusto ed efficiente.


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