by Editore | 9 Marzo 2012 8:41
CALTANISSETTA — La strage di via D’Amelio che uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, insieme agli altri attentati mafiosi del 1992-93, ha la stessa valenza della bomba di piazza Fontana. Azioni criminali compiute per incidere sugli equilibri politici del Paese, negli anni Settanta come nei Novanta. «La strategia della tensione non ha mai abbandonato l’Italia», spiega il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso facendo un parallelo tra le bombe di marca neo-fascista che inaugurarono la stagione del terrorismo e quelle piazzate da Cosa nostra in Sicilia e nel continente dopo la sentenza definitiva del maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
«Emerge la prospettiva di una strategia stragista — aggiunge Grasso — che partendo dallo spartiacque dell’omicidio Lima (marzo 1992, ndr) arriva fino alla mancata strage dell’Olimpico (gennaio 1994, ndr). L’azione mafiosa portata avanti era una sorta di estorsione nei confronti delle istituzioni, perché c’era il pericolo di mutamenti politici non graditi». È la chiave di lettura della cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, emersa dalle nuove indagini sull’attentato di via D’Amelio che ieri hanno portato all’arresto di altre quattro persone, di cui tre già detenute: il boss Salvatore Madonia, considerato uno dei mandanti della strage; Vittorio Tutino, che insieme al neo-pentito Gaspare Spatuzza rubò la Fiat 126 poi riempita di tritolo; il presunto «basista» Salvatore Vitale; l’ex collaboratore di giustizia Calogero Pulci accusato di falsa testimonianza.
Le indagini sono state condotte dal procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, dai suoi vice Amedeo Bertone e Domenico Gozzo, e dai sostituti Gabriele Paci, Stefano Luciani e Nicolò Marino, il quale avverte: «Questo non è un punto di arrivo, ma di partenza. Ci sono ancora tante circostanze da chiarire, a partire dai “concorrenti esterni” come l’uomo estraneo a Cosa nostra presente nel garage quando i mafiosi sistemavano l’esplosivo nella 126».
Nelle conclusioni dell’inchiesta nissena c’è pure un giudizio di «sostanziale inattendibilità » su Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo legato ai boss corleonesi Riina e Provenzano. La «bocciatura» di Ciancimino jr era stata anticipata dalla relazione della Direzione nazionale antimafia, redatta dal sostituto procuratore Maurizio De Lucia. «A ben vedere, il bilancio della pseudo-collaborazione del Ciancimino sembra essere favorevole più agli interessi di Cosa nostra che dello Stato», scrivono i pm di Caltanissetta, che si chiedono se il suo «atteggiamento processuale sia frutto di una strategia di depistaggio e calunniatoria posta in essere, nell’interesse o con l’avallo di Cosa nostra, soltanto da Massimo Ciancimino ovvero se dietro questi comportamenti, apparentemente inspiegabili alla luce dei più elementari principi della logica e del buon senso, non si nasconda una occulta “cabina di regia”».
Delle dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco gli inquirenti «salvano» solo la parte relativa ai contatti tra i carabinieri e il padre, riscontrata dai racconti di altri testimoni. E proprio in virtù dei contatti tra i boss e rappresentanti delle istituzioni, di cui il magistrato era venuto a conoscenza, l’eliminazione di Paolo Borsellino fu anticipata rispetto ai tempi inizialmente programmati da Totò Riina. Perché rappresentava un ostacolo alla trattativa di cui erano stati informati anche «gli alti vertici dello Stato», sottolinea il procuratore aggiunto Gozzo. E il procuratore Lari dichiara il proprio «sconcerto di fronte al silenzio di alcuni politici», da vent’anni a questa parte.
Per la prima volta, per l’attacco mafioso contro Borsellino viene contestata l’aggravante del terrorismo, che Lari spiega così: «Cosa nostra voleva creare allarme e panico nella popolazione per poi condizionare le scelte della classe politica; è così che comincia la trattativa, che passa dunque anche per la strage di via D’Amelio».
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