La sindrome cinese e la ripresina americana
Due motori su tre perdono colpi: la ripresa mondiale soffre, affondata dall’eurozona ma ora anche dall’improvvisa debolezza della Cina. Sui mercati soffia un vento di paura. Solo l’America (terzo motore) sembra solida, ma basterà ? Time getta un dubbio anche su questo: dedica la copertina alla gracile crescita Usa, la rappresenta come un magrolino che gonfia un bicipite rachitico. A creare lo sconforto sui mercati è stata una raffica di dati “concordi” fra eurozona e Cina. I 17 paesi dell’area euro sono entrati ufficialmente in recessione, ancora più presto del previsto, con il secondo trimestre di crescita negativa. Gli ordinativi all’industria europea sono scesi del 2,3% a gennaio, e da questa caduta dell’attività produttiva non si salva più nemmeno la Germania. Dunque la manna monetaria della Bce, l’inondazione di liquidità offerta da Mario Draghi al sistema creditizio, non basta a compensare l’effetto depressivo dell’austerity. Ma se l’eurozona è ormai da tempo il “buco nero” della crescita globale, le difficoltà della Cina sono più recenti e preoccupanti.
Fino a non molto tempo fa, si guardava a Pechino come al “cavaliere bianco” in grado di salvare l’Occidente dalla recessione, grazie alla crescita vigorosa e alla massa di capitali disponibili per investimenti all’estero. La Repubblica Popolare resta una locomotiva, ma le sue previsioni di crescita si sono ridimensionate: il premier Wen Jiabao le ha abbassate al 7,5% per il 2012. E’ un rallentamento, dopo anni in cui il Pil cinese cresceva al 10%. Il fatto è che la Cina non può non risentire del disastro europeo: l’Ue nel suo insieme supera gli Stati Uniti come mercato di sbocco per le esportazioni made in China. Scatta la classica spirale perversa: gli europei comprano meno prodotti cinesi, la Repubblica Popolare rallenta, e quindi a sua volta compra meno tecnologie tedesche.
Ancora più preoccupanti sono altri fattori, di natura interna, che influiscono sul rallentamento cinese. Pechino avrebbe i mezzi per varare una manovra di spesa pubblica pro-crescita. Il problema è che la Cina ha già sovra-investito in progetti titanici di opere pubbliche, infrastrutture, impianti industriali. Ha anche gonfiato la sua bolla speculativa nel mercato immobiliare. Le banche cinesi sono piene di crediti ad alto rischio, per aver finanziato il boom del mattone o i progetti megalomani di infrastrutture. Un rapporto della Banca mondiale evoca il rischio che la Cina possa finire dentro la «trappola dei paesi a reddito medio»: è la situazione in cui si trovarono Giappone e Corea del Sud, dopo aver esaurito la fase del primo decollo industriale. Per uscire dalla trappola bisogna riconvertirsi a un nuovo modello di sviluppo, spostarsi su tecnologie avanzate, sviluppare i consumi interni: cambiamenti non facili da applicare a un gigante da 1,3 miliardi di abitanti.
Fra le potenze emergenti che appartengono al club dei Bric, il Brasile ha subìto una frenata peggiore di quella cinese, quest’anno la sua crescita si limiterà al 3,5%. Tiene meglio l’India che aggancerà la Cina con la stessa velocità di sviluppo, 7,5%. Ma sia India che Brasile, come la stessa Cina, in questa fase di transizione stanno adottando politiche sempre più protezioniste. Quindi per le economie occidentali i Bric saranno mercati meno penetrabili.
Solo l’America si salva da questo quadro di peggioramento. In tre mesi ha creato 734.000 posti di lavoro in più, al netto dei licenziamenti. E’ il migliore risultato dall’aprile 2006, cioè prima della grande crisi. Il Pil americano sta accelerando, quest’anno potrebbe chiudersi con un rialzo del 2,8%. Ma la copertina di Time sulla ripresa “schiappa” coglie nel segno. La disoccupazione resta su livelli storicamente elevati, all’8,3%. E questi ritmi di crescita non sono quelli a cui l’America era abituata nelle fasi post-recessione, quando solitamente rimbalzava in modo ben più vigoroso. La spiegazione? L’ipotesi più ottimista dice che questa crescita è moderata perché gli americani hanno finalmente messo la testa a posto, ed è in corso una riduzione dei debiti delle famiglie: dolorosa ma necessaria, questa impedisce un vero boom dei consumi. Un’altra teoria, ha catturato l’attenzione della Fed. Sostiene che il ritmo di crescita rallenta in modo irreversibile per ragioni demografiche: è venuto meno quel serbatoio di popolazione lavorativa che furono per molti decenni le donne in entrata per la prima volta nella popolazione attiva.
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