La rivoluzione russa che non ci sarà  Che fare?

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Mosca.  Verso la metà  degli anni Novanta Alex voleva fare lo psicoanalista, professione ancora ai primi passi in Russia: la sua carriera ebbe una svolta inattesa quando il parafango della sua scalcinata autovettura urtò quello di una Mercedes con i vetri oscurati. I due scimmioni usciti dall’auto gli fecero capire senza mezzi termini che quella scalfittura gli sarebbe costata cara. Non avendo lui di che pagare, i due lo caricarono in macchina e se lo portarono dietro. Credendo che fosse arrivata la sua ora, Alex cercò non di parlare lui ma, più abilmente, di far parlare loro. Non mi sa dire come ci riuscì, fatto sta che nel giro di mezz’ora uno dei due aveva cominciato a raccontargli ricordi crudeli dell’infanzia e piangeva a calde lacrime. La faccenda risalì fino al capo, un mastodontico mafioso uzbeko. Diversi suoi amici erano stati mandati al creatore recentemente e lui cominciava a prendere coscienza della precarietà  della vita: era in preda a una specie di depressione. È così che Alex, come nella serie televisiva I Soprano, è diventato uno psicoanalista per mafiosi.
Racconto questa storia, già  parecchio datata, perché è dall’alto di questa competenza che Alex mi ha dato il suo parere su quello che ci si poteva aspettare dalle elezioni di marzo. Niente. Niente perché la politica (è Alex che parla) in Russia non ha nessuna importanza: qui il vero potere è nelle mani delle mafie, che si comportano come degli azionisti che il giorno in cui l’amministratore delegato cesserà  di essere popolare troveranno senza problemi qualcuno di più presentabile per sostituirlo, all’apparenza un po’ più democratico. Il problema quindi non è Putin: se il malcontento persisterà , sarà  cacciato in favore di un altro uomo di facciata, e tutto continuerà  come prima. Potete viaggiare, dire quello che volete, guadagnare soldi, rubarli, ma non potete dire la vostra sulla direzione del Paese: non è faccenda che vi riguardi. Perché questo stato di cose cambi ci vorrebbe una rivoluzione autentica, cosa che nessuno si sogna di fare. Ecco perché anche Alex, che pure era stato uno degli eroi sulle barricate nel 1991, oggi non ha la minima voglia di andare a manifestare accanto a questi vip pieni di sé, gli Akunin, le Ulickaja, i Bykov, i Parchomenko, che piacciono tanto ai commentatori francesi e ai quali ben si attaglierebbe, se non fosse già  presa, l’etichetta di gauche caviar: lui, la domenica, preferisce andare a giocare a tennis.
Era il primo giorno del mio soggiorno in Russia e subito dopo aver incontrato Alex sono andato a far visita a Eduard Limonov. Dovevamo festeggiare il successo del libro che ho scritto su di lui, e poi è sempre interessante ascoltarlo, perché è uno che parla senza peli sulla lingua. La differenza tra Limonov e Alex è che lui sogna sempre la rivoluzione e Alex non la sogna affatto, ma concordano nel loro disprezzo per quelli che Limonov chiama i «leader borghesi». Dice che in autunno, dopo lo scambio di poltrone fra Putin e Medvedev e dopo quelle elezioni legislative così spudoratamente truccate, c’è stata una vera indignazione popolare, ma che quella indignazione è stata riassorbita, indebolita, svuotata da quella banda di intellettuali che si è messa a manifestare non appena è stato chiaro che non si correva più alcun pericolo, e a cui poco dopo si sono uniti vari politici opportunisti; e tutti, come un sol uomo, dal 24 dicembre al 4 febbraio se ne sono andati in vacanza: il blogger Navalny in Messico, gli altri al mare.
Non si può fare a meno di scorgere, nelle parole di Limonov, l’amarezza del pioniere che era l’unico a fare una cosa quando per farla ci voleva coraggio, quando c’era davvero il rischio di finire dentro, e non per qualche ora ma per anni interi, e che ora se la vede trafugare da persone che a farla rischiano ben poco. Ma osserva anche che due mesi fa tutti erano convinti che lui fosse fuori strada, mentre ora in tanti gli danno ragione: c’è stata una vera occasione, non di fare una rivoluzione, ma di agire con efficacia, un’occasione di influire sul potere e ottenere le riforme autentiche che venivano rivendicate – riforma elettorale, liberazione dei prigionieri politici – e l’opposizione non ha saputo coglierla. Uno spiraglio si è aperto per richiudersi subito dopo, e tutto è tornato come prima. Lo sentirò dire spesso.
Le manifestazioni in auto sono una specificità  russa. Per una ragione evidente, e cioè che in macchina fa meno freddo che a piedi, ma anche perché il russo medio in macchina ci passa un tempo smisurato, bloccato in ingorghi mostruosi, con le donne che in alcuni casi si provvedono di pannoloni per poter alleviare la vescica. E uno dei segni più indigesti dell’arroganza dei ricchi e potenti è il lampeggiante che mettono sul tetto della loro auto per sottrarsi a questa schiavitù comune. Da due o tre anni, su internet, piovono denunce di queste violazioni del codice della strada da parte di persone che non hanno nessuna ragione valida per essere dotate di un lampeggiante, di vecchietti e bambini che finiscono sotto le ruote di questi macchinoni neri che corrono all’impazzata e i cui guidatori, o i loro datori di lavoro, la passano sempre liscia. Questo è il tema su cui più di tutti si coagula il malcontento popolare, e da quando un certo Shkumatov ha avuto l’idea, in segno di scherno, di incollare sul tetto della sua auto un secchiello azzurro di quelli che i bambini usano in spiaggia, le manifestazioni dette «dei secchielli blu» si sono moltiplicate, e l’opposizione ci si è ispirata.
È così che mi sono ritrovato, trascinato da un amico giornalista, a srotolare lo scotch con le dita intirizzite per fissare uno di questi secchielli sull’auto del deputato di Novosibirsk Ilija, Ponomarev. Probabilmente Limonov pronuncerebbe giudizi sferzanti su questo Ponomarev e lo tratterebbe da utile idiota: appartiene a Spravedlivaja Rossja (Russia giusta), una formazione che in molti considerano un finto partito d’opposizione, strumentalizzato dal Cremlino; ma nessun partito, se è per questo, sfugge a sospetti di questo genere (o meglio, qualcuno sì: i comunisti di Zyuganov, ad esempio, ma anche se l’idea è di rompere le scatole a Putin a qualunque prezzo, bisogna avere parecchio pelo sullo stomaco per votare comunista in Russia). Ponomarev, in ogni caso, ha una bella faccia, è un uomo giovane, gioviale, caloroso ed è stato piacevole, stipati in cinque o sei nella sua auto, girare lungo la circonvallazione interna di Mosca suonando il clacson e abbassando i finestrini, sfidando il freddo, per scambiarsi gesti calorosi con gli occupanti di altre macchine equipaggiate con un secchiello azzurro come la nostra o con quei nastri bianchi che sono diventati il simbolo dell’opposizione a Putin (il quale ha finto di scambiarli per dei preservativi). Sembrava un matrimonio: persone di tutte le età  erano appostate sul marciapiede per applaudire il passaggio delle automobili infiocchettate. Qualcuno, sprovvisto di nastri, agitava dei palloni o delle buste di plastica, l’essenziale era che fossero bianchi. In questo ambiente da festa della maturità , Ponomarev telefonava in continuazione per cercare di sapere quanti eravamo. Tremila macchine secondo gli organizzatori, trecento secondo la polizia: questa divergenza di cifre è un classico, ma per amore di verità  bisogna dire che dall’interno di una di queste auto era impossibile riuscire a farsi un’idea anche vaga del successo della manifestazione, e comunque tremila macchine su una grande arteria di scorrimento non sono un corteo granché nutrito. Le cifre sui manifestanti sono la posta in gioco di un’escalation senza fine: ogni volta che l’opposizione si vanta di aver portato in piazza, poniamo, diecimila persone, il partito di Putin, Russia unita, si farà  un punto d’onore di radunarne centomila un’ora dopo.
Un’altra posta in gioco sono le autorizzazioni per le manifestazioni: bisogna dire quante persone sono previste e quale tragitto si intende percorrere; sono tutte cose che si negoziano con il potere e quelli, come l’ex ministro di Eltsin, Boris Nemtsov, che hanno fama di essere abili in questi negoziati sono immediatamente sospettati di compromesso, se non addirittura di tradimento. È uno dei grandi rimproveri che gli muove Limonov: invece di correre il rischio di scontri di piazza manifestando nei pressi del Cremlino, Nemtsov ha lasciato che le manifestazioni si impantanassero in un luogo del tutto privo di rischi per il potere, e che non a caso si chiama Bolotnaja, “la palude”.
Durante tutto il mio soggiorno, una delle mie occupazioni principali è stata seguire su internet le voci che annunciavano manifestazioni e contro-manifestazioni quasi quotidiane, e di cui, a dire il vero, pochi sembravano essere informati. La Lega degli elettori (ossia i «leader borghesi» tanto vituperati da Limonov) ha programmato, la domenica precedente il primo turno elettorale, una catena umana lungo la stessa circonvallazione periferica che avevamo percorso in macchina: perché l’iniziativa riuscisse servivano trentaquattromila partecipanti. È stato aperto un sito su internet dove ci si poteva iscrivere segnalando il punto in cui si voleva andare: otto giorni prima dell’evento eravamo a quota milleduecento. Il mio volo di ritorno era prenotato per quella domenica, ho deciso di posticiparlo.
Il complesso Artplay è ricavato da vecchi magazzini trasformati in ristoranti, gallerie d’arte, studi di architettura; tutti gli esponenti più in vista dell’opposizione affollano una mostra che celebra la creatività  delle proteste iniziate a dicembre: cartelli, magliette con stemmi, maschere di carnevale, tutte variazioni sul tema “Fuori Putin”. Alcuni sono molto divertenti, ma dà  da pensare la rapidità  con cui questa recentissima cultura della ribellione si trasforma in arte contemporanea, e bisogna ammettere che è proprio questo il problema dell’opposizione moscovita: il suo essere incorreggibilmente modaiola. Sembra di essere al cocktail di inizio anno della rivista Inrockuptibles, in Francia, dove tutti sono giornalisti, artisti, performer, tutti hanno il loro sito o il loro blog, e naturalmente la loro pagina Facebook. Il potere definisce questi giovani «gli hamster [criceti, ndr.] di internet», loro si autodefiniscono gli hipster, cioè gli stilosi (in russo le due parole inglesi si pronunciano gamster e ghipster, perché la “h” aspirata diventa “g” dura). Quando Putin ripete ossessivamente che quelli che manifestano contro di lui sono il partito degli stranieri e sono tutti pagati dalla Cia, ci si accontenta di sorridere, ma non si può fare a meno di considerare la tesi di chi sostiene che rappresentano soltanto un’infima minoranza della popolazione, che non hanno niente a che vedere con la vera Russia. Questa “vera Russia”, che nessuno dubita possa vincere anche senza brogli, devo confessare di non averla vista nel corso di questo viaggio. Il fatto è che non conosco nessuno che si fregi di appartenervi ed è troppo triste andare da solo a una manifestazione, soprattutto con questo freddo infame. Le loro manifestazioni però ci sono, e sono imponenti, ma anche in questo caso quello che si vede su internet dà  da pensare.
Prendete il grande comizio allo stadio Luzhniki. Centotrentamila persone secondo gli organizzatori e secondo la polizia, per una volta concordi. Dato che l’autorizzazione ufficiale era stata richiesta per centomila persone, la nuova civetteria del potere consiste nel chiedere scusa, con un legalismo finora mai riscontrato, per il superamento imprevisto del numero dichiarato, e pagare l’ammenda relativa: duemila rubli, poco meno di 50 euro. Putin, che pure centellina le sue apparizioni, è venuto di persona. Arringa la folla insistendo appunto sul tema della vera Russia, e della minaccia che rappresentano per essa coloro che non la amano. «Voi amate la Russia?». «Sì!», risponde la folla entusiasta. «Siete pronti a difenderla?». «Sì!». Tutto bello e buono, ma quando, alla fine del comizio, i giornalisti intervistano i partecipanti, molti si sottraggono alle domande con diffidenza, qualcuno ammette che è stato pagato, o ha subìto forti pressioni per venire; e quelli che dicono il contrario lo fanno con uno zelo sospetto, come quel tizio dall’aria tetra che brandisce un cartello con sopra scritto: “Sono venuto di mia volontà “. Questa folla sarà  anche la vera Russia, ma assomiglia soprattutto all’Unione Sovietica. Allora non si manifestava, si sfilava. Oggi c’è una Russia che continua a sfilare e una Russia che manifesta. Quella che sfila lo fa più o meno strascicando i piedi, quella che manifesta lo fa perché ci crede, perché ne ha voglia, perché è divertente. Poco importa il numero, quindi: la seconda ha già  vinto.
È appena uscito in Francia un film intitolato Ritratto al crepuscolo che a mio avviso è il migliore film russo da parecchi anni a questa parte. Considerando che la trama si sviluppa in modo molto inaspettato, per non guastare la visione ai lettori dirò semplicemente che parla di una ragazza della classe media che i suoi amici, quando alzano i bicchieri per brindare al suo compleanno, possono dichiarare realizzata: un marito gentile, che non si ubriaca e che guadagna bene facendo affari, un mestiere interessante, un appartamento in centro. Insomma, tutto le va bene. Fino al giorno in cui degli sbirri di pattuglia la caricano in macchina, la violentano e la lasciano sul bordo della strada e può anche dirsi fortunata di non essere stata pestata. In seguito ritorna sui luoghi dove tutto è successo, individua uno dei suoi stupratori e ci si aspetta che si vendichi, però… Da qui in poi non vi racconto più la trama, andate a vedere il film; una cosa però ve la posso dire: è universale perché è una storia d’amore, ma è anche straordinariamente russa. Rivisita in chiave moderna la vecchia contrapposizione, che attraversa tutto il XIX secolo e tutta la grande letteratura russa, fra occidentalisti e slavofili. Da un lato la borghesia rampante che aspira a vivere, e di fatto vive, come a Parigi o a Londra: i giovani che sono su Facebook e che vediamo tamburellare sulla tastiera dei loro MacBook Pro negli Starbucks delle grandi città . Dall’altra la Russia dei piccoli centri e dei villaggi, arretrata, alcolizzata, brutale, lurida: ma, dicono gli slavofili, è qui che sta l’anima della nazione. L’eroina di Ritratto al crepuscolo incarna la prima Russia, lo sbirro stupratore la seconda, e il film, senza nessun dogmatismo, traccia un cammino accidentato fra l’una e l’altra. In termini politici, la trasposizione sembra scontata: l’emergente classe media deve il suo crescente slancio, il suo crescente benessere e la sua crescente libertà  a Putin, ed è la classe media che oggi manifesta contro di lui; le province arretrate, che hanno molte più ragioni per lamentarsi, gli restano invece fedeli.
Ritratto al crepuscolo è stato fatto, con pochissimi soldi e tanto talento, da due giovani donne: Angelina Nikonova, regista, e Olga Dychovishnaja, sceneggiatrice e attrice principale. Le avevo incontrate brevemente a Parigi, e quando sono arrivato a Mosca Olga mi ha invitato a cena a casa sua. Prima sorpresa: casa sua non è un piccolo appartamento, come quelli in cui vive la maggior parte dei russi che conosco, ma una magnifica dacia che si raggiunge passando dalla Rubljovka, la strada che serve i sobborghi più esclusivi della parte ovest di Mosca e che è diventata il simbolo della cultura del «lampeggiante». In queste abitazioni nascoste dietro muri altissimi, protette da milizie private, vivono i ricchi e potenti. Amico lettore che hai visto il film e come me sei rimasto affascinato da Olga non hai motivo di rimanere deluso. A casa sua non c’è nessuna ostentazione, nessuna pacchianeria da nuovi russi. In casa sua, come in lei, tutto è grazia e semplicità . Ma questa grazia e questa semplicità  non sono quelle della borghesia rampante che il film ritrae, sono indiscutibilmente quelle dell’élite e mi accorgo improvvisamente che questa élite non è poi cambiata di molto dai tempi dell’Unione Sovietica. Di serate del genere, con invitati squisitamente colti e poliglotti, inframmezzate da brindisi, da sudate nella sauna raggiunta correndo attraversando il giardino innevato e da canzoni esaltate intonate da una bella georgiana che si accompagna con la chitarra, dovevano essercene di esattamente identiche, in posti identici, ai tempi in cui Nikita Mikhalkov non era lo spaventoso despota che è diventato, ma un giovane regista di inebriante carisma e talento. E quando affronto l’argomento della politica, nessuno si tira indietro, al contrario: tutti adorano parlare di politica, e naturalmente tutti sono contro Putin, ma contro Putin come l’élite culturale di quarant’anni fa era contro Breznev. Si parlava male di lui, del regime e dei gulag, ma la verità  è che chi apparteneva alla nomenklatura culturale sotto Breznev viveva come un re, faceva i film che voleva e non aveva nessun motivo di desiderare che le cose cambiassero. Allora sì, si può ridere, e ridere di gusto, degli spot elettorali che mostrano “la Russia senza Putin” (file di gente davanti ai negozi vuoti, folle stravolte che si aggirano per strade devastate, guerra civile), ma quando Putin dice, in sostanza, «Il partito degli stranieri ci augura questa cosa meravigliosa, una “primavera araba”, ma voi la volete questa “primavera araba”? Volete che la Russia diventi come l’Egitto? O come la Libia?», tutti, tranne qualche illuminato come Limonov, sono costretti a rispondere: «No, non la vogliamo». Sono felicissimi di manifestare, perché è nuovo e divertente avere il diritto di farlo. Sarebbero felicissimi di avere delle elezioni più pulite, perché queste usanze da repubblica delle banane fanno venire da vergognarsi. Sarebbero felicissimi di avere qualcuno più giovane e aperto di Putin, perché il presidente russo è come Rambo: il primo e il secondo ancora si reggevano, ma dal terzo in poi la sensazione netta è della minestra riscaldata. Ma a condizione che tutto avvenga senza traumi, e senza lasciare il certo per l’incerto. Putin parla innanzitutto di stabilità , e la stabilità  è un bene prezioso.
I putiniani sono introvabili. Pensavo di incontrarne qualcuno in provincia, nei bastioni della “vera Russia”, ma devo ammettere che andare a Nizhnij Novgorod per vedere Zachar Prilepin non era la strategia migliore per scovarli. Prilepin, a nemmeno quarant’anni, è riconosciuto, nel suo Paese e all’estero, come uno dei migliori scrittori russi. Lui non è un prodotto dell’élite moscovita, ma un ragazzotto di provincia che è stato soldato in Cecenia e poi militante del Partito nazional-bolscevico, i crani rasati di Limonov. Lui peraltro ha ancora il cranio rasato, le Doc Martens ai piedi, un paio di begli occhi azzurri e qualcosa di assolutamente commovente nel modo in cui si sforza di conciliare la sua condizione di autore celebrato, invitato nel mondo intero, sollecitato dalla gente che conta, e la sua fedeltà  al mondo di amici in cui è cresciuto e su cui continua a scrivere: non il mondo degli hipster, ma il mondo dei giovani proletari abbandonati al bordo della strada. Quando lo incontro ci sono altre tre o quattro persone con lui, tra cui un tizio molto gentile e molto colto, lettore di Alain Badiou e Julius Evola, che per molto tempo ha diretto la radio locale dei nazional-bolscevichi, e un vecchio democratico che è stato in prigione per aver denunciato le estorsioni delle forze armate russe in Cecenia. Prilepin, che di quelle forze armate ha fatto parte e ne ha fatte di cotte e di crude con loro, si ricorda che al ritorno dal fronte considerava il vecchio democratico un traditore e aveva perfino pensato di ucciderlo, ma oggi, quasi quindici anni dopo, sono amici per la pelle e concordano appieno nella loro analisi della situazione politica. C’è un nemico, che si sa che vincerà , e di fronte a lui soltanto dei comprimari impresentabili: l’eterno giullare nazionalista Zhirinovskij (il cui slogan elettorale promette, sobriamente, «Con Zhirinovskij andrà  meglio»), il vecchio comunista Zyuganov (slogan ancora più sobrio: «Votate Zyuganov»), il miliardario Prochorov, meno logorato degli altri e il cui programma di riforme a tutto campo sarebbe condivisibile se non ci fosse il dubbio che fingendo di fare opposizione corra in realtà  per il Cremlino. Ci sarebbe da scoraggiarsi, soprattutto se per giunta, come Prilepin e i suoi amici, si guarda con diffidenza ai vip che pretendono di rappresentare la società  civile: eppure no, loro non sono per niente scoraggiati; sono disincantati, beffardi, ma in fondo ottimisti, ed è l’affascinante lettore di Badiou, ex capo dei nazional-bolscevichi di Nizhnij, che mi fa il discorso più sensato, a mio avviso, fra quelli che ho ascoltato in questo mio soggiorno. «Nessuno in questo Paese», ammette questo rivoluzionario, «vuole sentir parlare di rivoluzione. Nessuno, seriamente, può definire quello che sta succedendo come una rivoluzione. Il maggio ’68 in Francia non era una rivoluzione: erano degli avvenimenti che hanno cambiato la società  nel profondo. All’epoca, naturalmente, dopo il maggio del ’68 avete avuto Pompidou al potere, e andava benissimo avere Pompidou: nessuno voleva che Daniel Cohn-Bendit diventasse presidente della Repubblica. Anche i russi non vogliono che un tipo come Navalny diventi presidente. Ma quindici, venti anni dopo il maggio ’68, i valori del maggio ’68 avevano vinto. Le persone che avevano fatto il maggio ’68 erano al potere. Da noi sarà  lo stesso: le persone che hanno fatto il dicembre 2011, quelli che erano a Bolotnaja, ben presto saranno al potere e hanno tutto l’interesse a una transizione morbida».
Quando dice questo si percepisce che al lettore di Badiou la cosa non lo riguarda direttamente: lui al potere non ci sarà  mai, non è il suo genere, ma il suo amico Zachar Prilepin sì, certamente. Finché Limonov, che l’ha formato come ha formato tante persone in questo Paese, sarà  ancora in attività , non si lancerà  in politica, ma dopo… Prilepin presidente? Ministro della cultura? Facciamo tintinnare i bicchieri ridendo: vogliamo scommettere?
Due gradi sottozero, è quasi primavera, e la grande manifestazione dell’ultima domenica prima delle elezioni è un successo. Ci si tiene per mano lungo la circonvallazione periferica: in certi punti la catena umana è molto fitta, in altri si sfilaccia e allora gli organizzatori mandano rinforzi; spontaneamente, in un’atmosfera gioviale, il cerchio si chiude e la sera, quando sentiamo la polizia parlare di undicimila partecipanti ci diciamo che l’obiettivo dei trentaquattromila probabilmente è stato ampiamente raggiunto. Io sono andato alla manifestazione con un gruppo di psicanalisti lacaniani. Gli psicanalisti lacaniani a Mosca non sono come da noi, vecchi e sentenziosi. Non indossano il papillon o mantelline a spina di pesce alla Mitterrand. Sono anche loro giovani borghesi entusiasti e telematizzati, esemplari tipici di quella che comincia a essere chiamata “generazione Bolotnaja”: hanno più paura degli ukaz di Jacques-Alain Miller, l’allievo e curatore testamentario di Lacan, che della repressione di Putin. Però un brivido ha attraversato il nostro gruppetto quando alcuni giovani putiniani si sono messi a sfilare sul viale brandendo cartelli a forma di cuore su cui era scritto “Putin vi ama tutti”. «I fascisti…», mormoravano i miei amici, tutti contenti di farsi paura, e mi sembrava di essere tornato non ai tempi del ’68, ché non ho l’età , ma almeno ai tempi delle manifestazioni contro la legge Debré, negli anni Settanta.
Contrasto edificante: gli antiputiniani hanno mediamente sui trent’anni, l’aria prospera e gioiosa, si conoscono tra loro, si abbracciano, si scambiano notizie su amici in comune, mentre i filoputiniani sono molto giovani – spesso hanno meno di vent’anni – indossano giacche a vento nere così misere che mettono tristezza, hanno quella faccia sorniona con la pelle chiazzata di macchie rosse che è il marchio tipico dei tifosi di calcio in tutto il mondo, e mi sono sentito un po’ a disagio quando uno dei miei nuovi amici ha chiesto ironicamente a uno di questi ragazzini se veniva spesso a Mosca. L’altro ha sbraitato, contro ogni evidenza, che lui era di Mosca, ma si vedeva chiaramente che non sapeva nemmeno dove si trovava, che l’avevano portato lì insieme ai suoi amici in macchina o in treno quella mattina stessa, dal suo paesino di provincia, e che lo avrebbero riportato lì la sera, senza nemmeno offrirgli una notte di baldoria nella capitale. La domanda del mio amico, moscovita da tre generazioni, intellettuale, poliglotta, che vive in un bell’appartamento, tradiva ingenuamente il più classico disprezzo classista, quello del borghese che guarda dall’alto in basso il proletario. Certo, non è una novità , è cosa nota che le rivoluzioni sono fatte dai borghesi a proprio beneficio; ma mi sono detto che dovrebbero quantomeno fare un po’ di attenzione.
Traduzione Fabio Galimberti
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