La rivoluzione lenta della nuova borghesia

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 Ma che hanno anche la stessa visione delle prossime tappe da affrontare. Per quanto le frodi del voto di ieri siano state massicce, l’opposizione non vuole svenarsi in una lunga e vana contestazione delle presidenziali. È ben consapevole che fin dalla settimana precedente erano già  pronti i risultati precisi da assegnare all’apparato dello Stato. Di fatto la paura si è ormai attenuata, tanto che non sono mancate le informazioni lasciate filtrare, a tutti i livelli, da giovani funzionari. Si sapeva le cifre sarebbero state diverse a seconda delle zone di città  o di campagna, delle regioni centrali o periferiche, e che la consegna era di rispettare la verosimiglianza, evitando il pienone nelle urne e modificando i risultati gradualmente, in crescendo verso le aree più centrali, tenuto conto anche della possibilità  di votare in seggi diversi da quelli corrispondenti al domicilio degli elettori.
Ecco perché le manifestazioni di protesta erano previste fin da prima del voto. Ma agli occhi degli strateghi dell’opposizione la questione essenziale è un’altra. Tutti sanno che al di là  delle frodi, Vladimir Putin ha una sua base nelle campagne, così come nelle città  industriali colpite dai fallimenti, in quella Russia ove la miseria è tanto grande che non si vuole rischiare di aggravarla ulteriormente con una crisi politica. Ma soprattutto, gli oppositori non hanno alcuna voglia di impegnarsi in una prova di forza persa in partenza. 
Come previsto, Putin ha vinto. Dopo aver ceduto il posto per un quadriennio – data l’impossibilità  di candidarsi per un terzo mandato consecutivo – a Dmitri Medvedev, è tornato al Cremlino. È un dato di fatto, e con tranquillo realismo l’opposizione non vuole tentare di cacciarlo da lì, ma cerca invece di imporgli un compromesso che non ritiene impossibile. 
Vorrebbe indurlo a non rimangiarsi le riforme promesse dal potere nel dicembre scorso, quando i brogli alle elezioni legislative avevano indotto i ceti medi alla dissidenza. E ottenere che, come promesso, i governatori delle regioni non siano più nominati ma eletti; che la creazione dei partiti politici e le leggi inerenti divengano diritto effettivo e non più solo teorico; e soprattutto chiedono che i partiti possano formare coalizioni elettorali, oggi vietate.
La battaglia sarà  dura, e certamente la vittoria è tutt’altro che a portata di mano; ma secondo gli strateghi dell’opposizione, Vladimir Putin non è Mubarak, e meno ancora Bashar al-Assad. È consapevole – dicono – che a manifestare è la Russia efficiente, quella capace di innovare, di creare imprese, di far girare l’economia. E sa che non potrà  governare durevolmente contro di essa, ma dovrà  pur trovare un modus vivendi col ceto medio urbano, poiché non vuole scontri armati in piena Mosca, ma desidera salvaguardare una rispettabilità  internazionale, e la possibilità  di ritirarsi un giorno per godersi il denaro che ha ammassato.
Gli oppositori non vogliono la rivoluzione, anche perché, come dice uno dei suoi esponenti, «a loro è andata bene»; in altri termini, è gente che a suo tempo ha approfittato della liberalizzazione economica per arricchirsi; che si era perfettamente adeguata al Far West degli anni di Eltsin, così come al laissez faire del periodo di Putin, ma oggi non sopporta più l’arbitrio, la corruzione e soprattutto l’abbandono in cui la Russia è lasciata dai dirigenti che sfruttano a dismisura le sue risorse naturali, al pari delle monarchie petrolifere.
La nuova borghesia nata nel post-comunismo si è ormai consolidata; i suoi figli, formatisi a Londra o a New York, aspirano alle libertà , e vorrebbero vivere e costruire imprese con dignità  e sicurezza, senza più dipendere da un potere politico che giudicano “anacronistico”. Questa borghesia vuole il potere; nata com’è dalla stessa frattura storica che lo ha consegnato ai suoi attuali detentori, e date le innumerevoli passerelle che la collegano a questi ultimi, crede di poterglielo strappare senza bagni di sangue, a tappe successive, mediante una serie di riforme e compromessi, per costruire in Russia una vita politica e ridestare le regioni con l’elezione di governatori, dando vita a un’opposizione credibile attraverso la costituzione di coalizioni democratiche. 
Potrebbe non essere un’illusione. Al Cremlino c’è chi si rende conto della necessità  di negoziare una svolta. Ma anche qualora Vladimir Putin vi si rassegnasse, le scosse non potranno che essere dure.
*Traduzione di Elisabetta Horvat


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