La rivoluzione di Istanbul tra magia e vecchi fantasmi
Anche le sobrie tinte della folla, in cui prevale il grigio, sono ravvivate da un giorno di primavera precoce, inatteso dopo ripetute nevicate. Feriscono gli occhi i riflessi del sole sulle automobili in lento, faticoso movimento tra le due sponde. E allungando lo sguardo sembrano investiti da riflettori variopinti anche gli edifici, i lontani grattacieli al di là di piazza Taksim e i più vicini celebri minareti di Sultanahmet. Mi chiedo se questa ubriacatura di colori, sublimata dal bagno nella luce azzurra del Bosforo, del Mare di Marmara, del Corno d’Oro, sia più psicologica che reale. Sia una spontanea metafora, suggerita dalla scoperta di una Turchia rinnovata, ricomparsa da protagonista sulla ribalta non soltanto regionale, come se vivesse una nuova vita.E c’è il panorama di Istanbul, concreta testimonianza del successo economico e della conseguente dinamica sociale. Insomma, quei colori sono segni di qualcosa che assomiglia a una rinascita.
(segue dalla copertina) ISTANBUL Nell’Istanbul un tempo “europea”, in via Istiqlal, una lunga strada pedonale, cammina, anzi marcia un esercito compatto, per lo più di giovani, tra negozi eleganti e bar e ristoranti illuminati fino a notte tarda. Mi dicono che la folla sia un misto di vecchia e nuova borghesia, la prima laica e liberale, radicata da sempre a Istanbul, la seconda tradizionale, religiosa e conservatrice, ma affamata di modernità . Quest’ultima ha le sue radici provinciali nell’Anatolia del boom economico favorito dalle liberalizzazioni degli anni Ottanta, ed è la base elettorale di Recep Tayyp Erdogan, al potere da 2002. In quella folla ci sono due distinte anime del paese, spesso in aperta tenzone, ma unite da una dirompente voglia di vivere che non vedi quasi più in Europa.
Ritorno dopo molti anni e ricordavo una Istanbul in chiaroscuro, immersa in un’atmosfera bianca e nera, teatralmente malinconica, come sono le capitali decadute, con le loro indelebili frustrazioni e miserie, trionfali, affascinanti nelle pietre, e meste nell’animo. Non è escluso che io stia plagiando, a memoria, Orhan Pamuk, perché l’Istanbul della sua giovinezza, descritta in un libro che resta prezioso, influenza ancora i miei ricordi. E tra questi ricordi è rimasta una frase in particolare. Poche parole (spero di non deformarne il significato) con le quali Pamuk attribuisce la malinconia degli abitanti di allora alla convinzione di essere condannati a una povertà eterna, come per una malattia cronica, a causa del crollo del loro grande impero. L’attenzione degli stranieri scottava. Era una sofferenza esibire la decadenza e con essa la povertà . Sul ponte di Galata la folla era cupa, vestita di scuro, senza traccia delle tinte luminose, arancione, verde, rosso, predilette per secoli dagli antenati.
Ebbene, quella Istanbul, rimasta nella memoria, non esiste più.
Ormai da anni ha recuperato i colori, espressioni di vivacità ,e di un evidente nuovo benessere, che non annunciano un ritorno al passato. Gli imperi non risorgono. La regola vale anche per quello ottomano. Ma l’Istanbul ritrovata offre l’immagine di un paese in apparenza più sicuro di sé; affrancato da quel senso di tristezza che l’avvolgeva come una nebbia, conferendole un indubbio fascino; non più con le spalle girate al Medio Oriente che lo circonda; non più prigioniero delle sue nostalgie e dei suoi umori scontrosi; ma che al contrario si è aperto ai vicini popoli arabi, un tempo dominati, poi ribellatisi e ripudiati.
Sui quali adesso esercita un’attrazione basata sul softpower, sulla cultura, sui valori e sulle istituzioni che da lontano sembrano appropriate per il Medio Oriente, dove il rapporto tra religionee politica, tra Islam e democrazia, resta per lo più irrisolto. Qui, si pensa, per non pochia torto, che il miracolo sia avvenuto. L’influenza non si limita al Medio Oriente, sfiora anchei cugini dell’Asia centrale. Li sfiora soltanto perché, emancipati dall’Unione Sovietica, andata in frantumi, Uzbeki, Kasaki, Ghirghisi, Tagiki, i lontani parenti, hanno una loro orgogliosa e distinta identità nazionale. E non sono all’urgente ricerca di un modello di democrazia islamica.
La Turchia d’oggi appare molto meno angosciatae risentita per la lunga attesa alle porte dell’Unione europea. È appagata dal suo status di membro del G20, di autorevole interlocutore dell’Occidente, del quale colma spesso il vuoto che ha lasciato in Medio Oriente, in seguito al fallimento della spedizione irachena, e la sorpresa della primavera araba.
Un passaporto europeo sarebbe adesso persino imbarazzante per il ruolo di paese guida che vorrebbe assumere, e che in parte ha conquistato, in Medio Oriente. A questa Turchia, a cui ho appena dedicato una pennellata generosa, non vengono risparmiati gli elogi. Un intellettuale laico, in aperta opposizione al governo di Recep Tayyp Erdogan, li definisce eccessivi. Cosi come giudica acritiche, troppo indulgenti, vedi ingenue (lui dice “turistiche”) le mie prime impressioni. Sotto il tappeto magico che ho ammirato, sotto lo splendore di Istanbul che ho tratteggiato, c’è del marcio. Si c’è del marcio in Danimarca. E il marcio è, per l’intellettuale liberale e laico, la “pseudo” democrazia turca in cui gli Arabi impegnati nelle loro primavere rivoluzionarie si illudono di avere trovato un modello, e che Americani ed Europei coprono di complimenti, per interesse e quindi in malafede. O per disprezzo, giudicando che nel mondo musulmano il basso livello democratico turco sia sufficiente.
Sentirò spesso ripetere, da giornalisti, scrittori, ed anche da più timorosi esponenti dell’opposizione ufficiale, che Erdogan, il primo ministro, è come il russo Putin. Oppure che la Turchia assomiglia alla Cina, non solo perché ha conosciuto tassi di crescita simili, vale a dire eccezionali, ma perché in Turchia, come in Cina, c’è la libertà di mercato e non la libertà politica. Hillary Clinton non è dello stesso parere. Ricevendo a Washington Ahmet Davutoglu, l’ispirato ministro degli esteri arrivato da Ankara, il segretario di Stato ha definito quella turca “una democrazia di successo” e l’ha indicata ai paesi post-rivoluzionari del Medio Oriente come un esempio da seguire. E del resto in Egitto e in Tunisia le formazioni neo islamiche non si fanno pregare per ispirarsi al partito di Erdogan, l’Akp (partito per la giustiziae lo sviluppo).I modelli occidentali non li interessano.
Durante questa mia riscoperta del paese dovrò spesso destreggiarmi tra severe accuse e sperticati elogi al regime, le prime formulate a volte con disprezzo, i secondi con toni eccessivi. È evidente la forte tensione ideologica. Il redattore di un grande quotidiano moderato, responsabile di un sindacato di giornalisti, mi dice che poco meno di un centinaio di suoi colleghi sono in prigione, molti di loro accusati di avere tramato con il Pkk, il partito curdo, e quindi considerati terroristi. Nelle redazioni regna l’autocensura, provocata dalle dirette pressioni e minacce del governo su direttori ed editori. Negli ultimi cinque anni sono finiti in carcere almeno settecento tra generali, ammiragli, membri del parlamento, proprietari di giornali e di televisioni. Durante il primo mandato di Erdogan (oggi è al terzo) i media, in particolare quelli controllati dal potente gruppo Dogan, denunciavano la corruzione del suo partito. Tutto si è risolto con un conto di 1,75 miliardi di euro per arretrati fiscali presentato al gruppo Dogan, il quale ha ottenuto uno sconto in cambio di una maggior discrezione da parte delle sue pubblicazioni.
Lo spettro dello “stato profondo”, un potere clandestino di ufficiali e di loro alleati civili, fedeli all’ordine laico stabilito nel 1923 da Mustafa Kemal Ataturk, ossessiona i servizi di sicurezza. E questa non è per la verità una caccia a dei democratici, poiché i laici ferventi hanno represso e a volte ucciso per decenni comunisti, islamisti, giornalisti, insomma chiunque potesse essere sospettato di dissidenza. Ma ora la ricerca di quello “stato profondo”, una specie di governo ombra (che avrebbe il nome di Ergenekon) formato da kemalisti, serve anche da pretesto per una campagna intimidatoria contro l’opposizione, sfilacciata e intimidita. A rendere ancora più torbida l’atmosfera politica è il potere non sempre visibile della grande confraternita islamica moderata (definita pragmatista) della quale è il capo l’imam Fethullah Guelen, residente in Pennsylvania. La confraternita si limitava un tempo ad avere una forte influenza sull’insegnamento, poi è passata alla stampa, all’industria, alla finanza ed anche alla polizia, servizi segreti compresi. Erdogan ha reagito, i suoi alleati guelenisti esageravano. Ma è con loro che il primo ministro continua a condividere il potere. Un potere dunque con due teste. La terza, l’esercito, è stata tagliata.
Gli americani sono di manica larga, e con loro gli europei, nell’elargire i complimenti alla democrazia islamica di Erdogan, nonostante le sue evidenti mancanze, e benché abbia dato qualche grosso dispiacere alla superpotenza. Nel 2003 non ha consentito alle truppe americane dirette in Iraq di passare sul suo territorio, sia pure con la scusa di una procedura parlamentare che aveva impedito di approvare l’autorizzazione; ma soprattutto il governo di Ankara è arrivato ai ferri corti con Israele, il più stretto alleato degli Stati Uniti nella regione, e un tempo partner privilegiato della stessa Turchia. Questi ed altri casi non sono riusciti a inquinarei rapporti turco-americani, basati su interessi strategici troppo importanti per essere offuscati dagli itinerari zigzaganti o dalle impennate della politica turca. Le impennate sono in realtà ben studiate. La tenzone con Israele e l’aperto sostegno ai Palestinesi ne sono le prove. Entrambi possono essere giusti e giustificati, ma accrescono la popolarità dei Turchi tra gli Arabi, e questa popolarità dà spessore alla Turchia membro della Nato. La quale diventa prezioso partner per gli occidentali estromessi, o quasi, dal gioco mediorientale.
Da tempo la Turchia è citata, non soltanto da Washington, come il paese in cui un Islam moderato convive con la democrazia, e quindi non c’è l’urto tra civiltà di cui siè tanto parlato. Oggi essa appare l’esatto contrario dell’Iran teocratico.E loè per davvero. Non solo per la sua “modernità ” musulmana, ma anche perché sunnita. E questo conta, pesa, in un momento in cui il confronto tra le due grandi correnti dell’Islam si intensifica in Medio Oriente. La Turchia è l’antagonista naturale, il contraltare, dell’Iran sciita ed anche della Siria sua alleata. Con una guerra civile in Siria e una possibile guerra aerea promossa da Israele per neutralizzare le centrali nucleari iraniane, questo è un paese chiave. Stabile ed efficiente. La sua ambiziosa diplomazia risulta tuttavia a molti già appannata, appesantita dall’eccessiva astuzia o ambiguità (da una presunzione al limite della sfacciataggine, sentenzia esagerando un oppositore, e con lui un ambasciatore) pur restando uno strumento unico nell’area mediorientale. I promessi, auspicati negoziati sul nucleare iraniano si terranno di nuovo a Istanbul quando e se riprenderanno sul serio. Ansioso di essere il mediatore dei conflitti regionali, grazie anche alla formula “zero problemi coni vicini”, Ahmet Davutoglu anima una politica estera che non manca di immaginazione. Ho avuto l’occasione di ascoltarlo a lungo, e ne ho ammirato l’eloquenza. Professore universitario, più incline a impartire lezioni (si dice un “kantiano”) che propenso al dialogo, Davutoglu adotta una tattica eclettica, adeguata a una Turchia dai molti volti. Al tempo stesso paese membro della Nato e in aperta politica tenzone con Israele, alleato della superpotenza dominante nella Nato; e con un governo fermo nell’escludere ogni iniziativa militare e attivamente in favore di una soluzione negoziata del problema nucleare iraniano, ma che ha deciso di dotarsi (non si sa mai!) di uno scudo radar antimissili, fornito dalla Nato, per proteggersi dalla minaccia nucleare iraniana.
Ankara non vuole neppure sanzioni perché il gas fornito da Teheran è indispensabile alla sua industria. Prima ancora che la crisi esplodesse, Barak Obama puntava sulla Turchia per sottrarre Damasco all’influenza di Teheran. Washington ci conta ancora, ma nel frattempo la situazione è mutata.
La formula “zero problemi con i vicini” lanciata da Ahmet Davutoglu, per rendere lapidaria la sua filosofia in politica estera, è stata in gran parte vanificata, poiché i problemi si sono moltiplicati con tanti vicini. La Turchia ne ha ormai,e di seri, con la Siria, l’Iran, l’Iraq più sciita che sunnita, Israele, l’Armenia, Cipro. Senza contare i curdi. L’abilità della politica turca consiste nell’annacquare ufficialmente quei problemi, al fine di consentire al governo di Ankara di apparire un mediatore accettabile. In grado di essere imparziale, se non proprio un arbitro neutrale. I colori di Istanbul, e del paese di cui è la splendida facciata, abbagliano il visitatore che ricorda i tempi bui, ma non ammaliano sempre l’intera regione, come capitava ai tempi fasti dell’impero. Anche perché il softpower è più civile, più umano e democratico, ma anche più volatile. Per esercitarlo ci vuole tatto e intelligenza, due virtù purtroppo drammaticamente effimere.
A questo punto bisogna evocare il termine “neo-ottomanesimo”. Il quale ricorre di frequente quando si vuole descrivere la pulsione imperiale, esauritasi in teoria negli anni Venti, e adesso riaccesasi in alcuni strati della società politica turca, fino a lambire la classe al governo. Gli intellettuali laici giudicano il neo-ottomanismo una tentazione egemonica.
E ne vedono un’evidente traccia nell’apertura al Medio oriente, a lungo snobbato dal laicismo di Ataturk e dei suoi seguaci kemalisti che guardavano all’Europa, e che erano razzisti nei confronti degli arabi. Questa Turchia, con una democrazia in chiaroscuro, e tante ambiguità in politica estera, è guidata da un conservatore, moralista nella vita privatae spregiudicato in quella pubblica, autoritario e populista, che sa apparire un modernizzatore. Un sondaggio gli dà il 54 per cento dei consensi. Egli usufruisce ancora della crescita economica eccezionale, che potrebbe subire la crisi dell’Europa, principale partner commerciale.
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