La qualità  della carta

by Editore | 5 Marzo 2012 2:27

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Il prossimo anno compirà  sessant’anni e la casa editrice, da quando ne è diventato proprietario, venti. Luca Formenton, conserva un tono da ragazzo un po’ informale. «Non prevedo grandi festeggiamenti. Non mi pare ci sia l’aria giusta. L’unica cosa che mi sono regalato, un po’ in anticipo, è una bella collana di narrativa italiana che vedrà  la luce ai primi di giugno. Per noi è un modo di arricchire il catalogo del Saggiatore che, in passato, ha puntato molto sulla saggistica», dice. E mentre lo dice mette mano a dei fogli: «Qui c’è scritto il nostro programma. Pochi principi, che ho introdotto con una frase del mio amico Carlos Fuentes: “devi creare lettori e non solo dar loro quello che vogliono”. Capisce?».
Sì, capisco. Ma se mi guardo in giro vedo un bel po’ di problemi che assillano l’editoria.
«Li vedo anch’io. Ma partirei da un’osservazione più generale. Oggi il mercato editoriale in Italia è per il 64 per cento controllato da cinque gruppi editoriali (Mondadori, Rizzoli, Gems, Giunti e Feltrinelli). Nel 1980, 72 editori facevano il 50 per cento del mercato. Siamo andati verso una grande concentrazione che ha creato non poche difficoltà  al medio editore, come siamo noi del Saggiatore».
È una tendenza che si riscontra anche nel resto del mondo. Alle crisi si risponde concentrando, assemblando e razionalizzando i costi.
«Ma vede, il libro è una merce un po’ speciale. Oggi tutti si preoccupano del suo futuro. Ma lo fanno per lo più con una mentalità  ragionieristica. Si parla di sconti, di Iva, di e-book. Ma il futuro da affrontare è la scomparsa dei lettori. E la causa è nella politica miope dei grandi editori e nella distribuzione che è diventata folle».
Quando parla della scomparsa del lettore immagino si riferisca al “lettore forte”.
«Era quello che con i suoi dodici libri l’anno acquistati teneva in piedi la filiera dell’editoria. Nel 2011, come ha scritto Repubblica, per la prima volta sono diminuiti: 700 mila lettori forti in meno. Non è proprio irrilevante».
Storicamente il Saggiatore è una casa editrice con una spiccata vocazione saggistica. Che è un mercato non facile, soprattutto quando si pubblicano cose alte.
«Vorrei sfatare il luogo comune che pubblichiamo libri alti e accademici. È una vecchia storia che cominciò con mio zio Alberto. Già  allora si diceva che la nostra fosse una saggistica universitaria. In realtà  abbiamo sempre pensato a fare libri che raccontassero le esperienze culturali più avanzate. Ma non solo le tendenze, i saperi, ma anche inchieste e racconti sul paese in cui viviamo. Il libro di Deaglio Patria, per esempio, ha venduto 70 mila copie».
Però molto raramente finite in classifica. È una questione che vi siete posti?
«Non è il nostro obiettivo primario. Puntiamo al catalogo e non viviamo solo delle novità . Non siamo ovviamente una casa editrice di bestseller».
So che le vostre rese sono alte. Può darci dei dati?
«Effettivamente sono alte ma abbiamo invertito la tendenza. Oggi si attestano intorno al 33 per cento».
Qual è il vostro fatturato?
«Il lordo è di poco superiore agli otto milioni. Pubblichiamo una settantina di novità  l’anno; una trentina di tascabili e tiriamo mediamente tra le cinque e le seimila copie per libro. Con delle punte anche di ventimila copie, come nel caso del nuovo libro di Joan Didion Blue Night, che è il seguito de L’anno del pensiero magico. Inoltre abbiamo rilevato da Einaudi alcuni vecchi titoli di Lévi-Strauss che è uno dei nostri autori di riferimento voluto da mio zio Alberto».
Che ricordo ha di suo zio?
«Era una persona speciale, per niente facile. Grande, grosso, elegante. Aveva un’aria romantica. Ho ammirato la sua scelta – lui che era il figlio di Arnoldo – di fare qualcosa di autonomo rispetto al moloc mondadoriano».
Fondò Il Saggiatore nel 1958.
«Sì e lo zio Alberto ne resse le sorti fino all’anno della sua morte, nel ’76. Fu un editore in anticipo sui tempi. La cultura italiana, allora, era divisa fra la tradizione cattolica e crociana da un lato e quella comunista dall’altro. Alberto ebbe l’intuizione di fare una casa editrice illuminista, aperta alle nuove discipline: l’antropologia, lo strutturalismo, la fenomenologia».
Quando suo zio fondò la casa editrice, annunciò il progetto con una lettera a Sartre.
«Ne spedì una anche a Faulkner».
Lei, quando nel 1993 è diventato proprietario della casa editrice, a chi avrebbe scritto?
«Forse a Vittorio Sereni: una persona di grande equilibrio, timida – facemmo un viaggio sulla sua Cinquecento da Bocca di Magra a Milano in silenzio – ma capace di accogliere le domande e i dubbi di un giovane quale ero allora».
Perché ha deciso di fare l’editore?
«Perché venivo da una famiglia di editori. Avrei voluto insegnare letteratura americana. Ma finii a lavorare per un anno alla Feltrinelli. Poi nel ’77 passai al Saggiatore. Entrai come redattore, in seguito all’ufficio diritti e infine per un periodo divenni assistente di Giulio Bollati. Alla fine mio padre mi disse che non avevo nessuna esperienza gestionale e mi consigliò di fare un master ad Harvard. Poi entrai in Mondadori e nel ’93 ho rilevato Il Saggiatore».
Oggi la grande incognita sono gli e-book. Come affrontate la rivoluzione digitale?
«Se ne discute tanto, forse troppo. Gli e-book sono una realtà  dalla quale non si torna indietro. Credo che nei prossimi anni occuperanno il venti per cento del mercato. Noi abbiamo già  in catalogo 140 titoli. Detto questo, penso che il grosso della produzione per i prossimi vent’anni resterà  cartacea. E che è qui che occorrerà  ancora investire per fare un prodotto di qualità ».
Non la pensano così alla Newton Compton che tagliano ferocemente sui costi del libro.
«Fanno un ottimo lavoro. Ma credo che l’oggetto libro vada migliorato e non peggiorato. La qualità  vera alla lunga ti fa risparmiare».
È soddisfatto della parte grafica?
«Lo sono molto, grazie all’ultimo restyling fatto sulla nostra collana principale. Abbiamo un’immagine molto riconoscibile. Stiamo invece lavorando per mettere a punto le copertine della parte che riguarda la narrativa». 
Ci sono dei titoli di romanzi che si è pentito di non aver preso?
«Beh, sicuramente Underworld di DeLillo. Era, indirettamente, un nostro autore ma ci chiesero una cifra molto alta che non mi sentii di anticipare. Poi ebbi tra le mani Il cacciatore di aquiloni di Hosseini. Ero appena tornato da un viaggio in Afghanistan. Lessi il romanzo e lo trovai completamente finto. Finì a un’altra casa editrice e divenne un bestseller. Mi dissero: l’avresti potuto prendere. È facile dirlo dopo. In ogni caso era un libro che non c’entrava niente con noi. Si corrono rischi e si fanno scelte anche sbagliate».
Che cosa non le piace del suo mestiere?
«Lo amo troppo per trovarvi qualche difetto e sono grato ai miei familiari. Mi preoccupano le strategie promozionali, gli sconti, il marketing».
E la crisi del libro non la preoccupa?
«Sì, certo. Anche se mio nonno Arnoldo diceva che la crisi del libro era nata con il libro».
Che ricordo ha del fondatore della Mondadori?
«Mio nonno è morto quando avevo 16 anni. Era un uomo burbero, ma dotato di fortissima ironia. Fu un’icona per tutta la famiglia e per la casa editrice. A noi nipoti ci ammoniva dicendo: siete nati con il sedere nel burro mentre lui il sedere l’aveva nell’ortica».
Si sente un privilegiato?
«Abbastanza».
E non le dà  fastidio che lo si possa pensare?
«Negli anni Settanta questo pensiero mi faceva soffrire: ero un ragazzo di sinistra ma allevato nei valori della cultura cattolica. Sentivo il senso di colpa di essere ricco e avvantaggiato. Oggi non più. Mi consola sapere di fare al meglio il mio lavoro».
Quanto la occupa il suo lavoro?
«L’ottanta per cento della giornata. Il resto, quando posso, lo dedico ai viaggi, alle letture fuori dalle cose obbligate e al canottaggio. Remare è la cosa che più mi libera la testa».

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