by Editore | 23 Marzo 2012 7:44
Se fossi il padre di un bambino autistico mi sentirei un po’ estraneo rispetto al dibattito sui giornali di queste ultime settimane avviato dall’articolo di Corbellini sul Sole 24 Ore e che è stato successivamente ripreso dai Presidenti delle Società Psicoanalitiche Italiane proprio su questo giornale. Mi sentirei un po’ estraneo perché dopo il riferimento alle Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità sul trattamento dei bambini autistici, si è polemizzato in modo troppo liquidatorio con la psicoanalisi. E gli psicoanalisti chiamati a rispondere, seriamente, anche da Repubblica, su questo tema generale – la psicoanalisi deve accettare i criteri di verifica della scienza oppure si tratta di una disciplina ” a statuto speciale”, sottratta a qualsiasi verifica empirica – non hanno poi potuto affrontare la questione particolare. Che è questa: la psicoanalisi può dare una risposta efficace al trattamento dei bambini autistici?
Ma vorrei ritornare alle Linee Guida, queste privilegiano l’intervento comportamentale con i bambini autistici in modo da aiutarli ad acquisire determinate competenze, ad esempio raggiungere il controllo urinario oppure tenere sotto controllo movimenti stereotipati ed incontrollati oppure poter svolgere compiti collaborativi. Va sottolineato a questo proposito che se questo può valere per le forme più gravi in cui è presente anche un ritardo intellettivo, vale molto meno per le forme di autismo caratterizzate da un miglior funzionamento. In ogni caso queste acquisizioni quantunque parziali possono aiutare il bambino ad adattarsi meglio alla vita familiare e scolastica, riducendo reazioni di rifiuto e di insofferenza nei suoi confronti.
Ma come genitore mi sentirei preoccupato che il trattamento comportamentale possa focalizzare il rapporto con mio figlio sulle acquisizioni comportamentali perdendo di vista aspetti fondamentali come le capacità di relazione cogli altri, la sua capacità di provare emozioni e poter condividere con gli altri quello che sta provando.
E’ qui che la psicoanalisi può dare un suo contributo fondamentale, per intenderci non le teorie di Bettelheim che considerava l’autismo come una fortezza vuota e neppure quelle di Frances Tustin, che riteneva l’autismo la conseguenza del narcisismo delle madri incapaci di accettare il distacco del figlio al momento della nascita, che privilegiavano piuttosto un intervento basato sull’interpretazione verbale. Mi riferisco al contrario ad una psicoanalisi relazionale che sappia valorizzare la dimensione dello sviluppo del bambino, in modo da aiutarlo a costruire un legame di attaccamento e a riconoscere se stesso come individualità . Allo stesso tempo un intervento psicoanalitico con i genitori per aiutarli a sopportare l’ansia e il peso di un bambino che si ritira dalle relazioni e a volte mostra più interesse per gli oggetti che per le figure umane. I genitori vanno aiutati a sopportare questo scacco relazionale e a ricercare i segnali del bambino su cui costruire un rapporto con lui. Pertanto l’intervento psicoanalitico quantunque non previsto dalle Linee Guida sarebbe fondamentale per sviluppare nel bambino le capacità empatiche e di mentalizzazione che sono particolarmente carenti nell’autismo. Ma non è sufficiente sottolineare la bontà della psicoanalisi per dimostrarne l’efficacia, servono prove empiriche che dimostrino quale intervento funziona meglio e con quale tipologia di bambini. Di nuovo come genitore vorrei sapere in modo documentato come devo aiutare mio figlio ed ottenere i migliori risultati.
Nel campo della ricerca è stato ampiamente dimostrato che l’autismo ha una base genetica consistente che si ripercuote sullo sviluppo cerebrale, tuttavia come l’epigenetica ha messo in luce la genetica non è un destino immutabile e può essere modificata e modulata con gli interventi ambientali e con la presenza attenta e sensibile dei genitori che sono i primi protagonisti di un intervento nei confronti del figlio, se opportunamente sostenuti e indirizzati.
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