LA LIBERAZIONE DI GRAMSCI E GLI ALTRI DETENUTI POLITICI

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Nel commentare quanto ho scritto su la Repubblica il 25 febbraio il prof. Buttigieg, Presidente della International Gramsci Society, ha affermato che nel 1934 Gramsci beneficiò della libertà  condizionale non per il suo ravvedimento, che allora non era richiesto dalla legge, ma per la buona condotta tenuta in carcere. L’argomento sarebbe stato già  trattato da autorevoli studiosi (Fiori, Spriano, Santucci), ogni altra ipotesi dunque è fantasiosa anzi è “lorianismo” – come dire: sciocchezze. 
Ciò che il prof. Buttigieg sostiene a proposito del testo della legge è corretto ma è anche largamente incompleto. È vero che nel 1930 la clausola del ravvedimento non era prevista dal nuovo Codice penale; essa fu tuttavia introdotta, nella normativa e nei fatti, l’anno successivo. Con l’art. 43 del Regio Decreto n. 602 del 28 maggio 1931, infatti, Mussolini attribuì al Ministro della giustizia, cioè al suo governo, l’autorità  di emanare le disposizioni applicative della legge ed emettere i relativi decreti. Come documentano decine di fascicoli di detenuti politici, le nuove procedure furono applicate con severità  e imposero la verifica del ravvedimento – reintegrato infine anche nel testo della legge nel 1962.
Il tema della liberazione di Gramsci, in realtà , non è stato approfondito dai biografi; lo testimonia (anche) la cronologia curata dalla Gramsci society che, come numerose fonti a stampa, attribuisce la concessione della libertà  condizionale ad «articoli del codice penale e regolamenti penitenziari relativi ai diritti dei detenuti malati». Come ho appena detto, così non era. Il problema è dunque aperto a nuovi studi e riflessioni.
Nel corso degli anni ’30 numerosi reclusi condannati dal Tribunale speciale si trovarono in condizioni giuridiche e disciplinari analoghe a quelle di Gramsci ma le loro istanze furono respinte, anche in presenza di gravi condizioni di salute. La ragione era sempre la stessa: i detenuti, come si legge nelle delibere (che pubblicherò in un prossimo saggio) esibivano attestati di buona condotta ma non prove di ravvedimento. Non si trattava di adempimenti burocratici o dichiarazioni formali (e fasulle), come oggi tendiamo a credere, ma di precise disposizioni che richiedevano (con questionari e fascicoli pre-stampati) i pareri delle autorità  carcerarie, delle parti lese, degli organi di Polizia, del Tribunale di sorveglianza, ecc. Come nel caso di Gramsci, era alla fine Mussolini a decidere, non un magistrato. Se così non fosse stato, del resto, il fascismo avrebbe affidato a pigri meccanismi amministrativi la sorte dei suoi oppositori. Invece il regime mussoliniano, proprio in ragione di queste procedure, era una dittatura. Chi volesse documentarsi può esaminare le carte: non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà  condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento. Sappiamo inoltre dalle corrispondenze sequestrate ai detenuti e finora mai pubblicate che molti comunisti considerati “irriducibili” appresero con sorpresa, a volte con sconcerto, la notizia che invece Gramsci aveva ottenuto la scarcerazione.
Il prof. Buttigieg ritiene che in Gramsci non vi fu ombra né onta di ravvedimento, che in quel contesto giuridico e politico significava impegnarsi a interrompere ogni rapporto con i comunisti. Ritiene anche che io accusi Gramsci di essersi «inchinato al cospetto del duce» o essere “un pentito” al solo scopo di «distruggere il mito» o «fare uno scoop». Buttigieg sbaglia. Tutto ciò che emerge dagli archivi induce a ritenere che negli ultimi anni della sua vita, non potendo più altro dire o scrivere anche per l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche, Gramsci tacque interrompendo anche la stesura dei Quaderni. Credo sia necessario esplorare questo capitolo della biografia senza reticenze né pregiudizi, interrogandosi anche sul significato che oggi noi attribuiamo alle parole – tra le quali il “ravvedimento” – e sul silenzio di Gramsci, che si protrasse fino all’ultimo giorno.

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La replica  Non si fa storiografia senza documenti    
di JOSEPH BUTTIGIEG


Biocca ammette il serio errore filologico in cui è incorso: anticipare al 1934 il testo dell’articolo del codice penale – il 176 – in uso a partire dal novembre del 1962. Serio perché nel testo del 1962 figura quell’atto di “ravvedimento” che manca nello stesso articolo in vigore nel 1934 quando Gramsci fa richiesta di libertà  provvisoria. Di questo articolo del codice penale Biocca faceva l’architrave di un intervento che si proponeva didemolire la storiografia su Gramsci.
Non potendosi più affidare al testo della legge in vigore nel 1934, Biocca tenta ora di ripresentare il suo argomento appoggiandolo su supposizioni e illazioni che – in assenza di una nuova documentazione – sono destinate a rimanere tali. Un modo di procedere che non dovrebbe essere permesso. La farraginosa spiegazione produce un solo risultato: quello di rimarcare l’infondatezza della tesi. Tra tanti “questionari”, “fascicoli”, “verifiche” citati nell’articolo, Biocca non riesce a trovare un solo documento che mostri “il ravvedimento” gramsciano. L’autore inoltre continua a eludere una domanda fondamentale: perché Mussolini avrebbe nascosto il “ravvedimento” del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?
In conclusione. Tutti auspichiamo che nuove conoscenze aprano nuovi orizzonti nel campo degli studi gramsciani, ma il contributo di Biocca non è ahimè in grado di far ciò, e questo suo tentativo non è aiutato dalla frettolosa liquidazione di una storiografia che ha lavorato con ben altra serietà , anticipando molte delle cose che ora Biocca sembra scoprire per la prima volta. Il mio giudizio sul suo metodo non può quindi essere diverso da quello già  espresso.
(L’autore è presidente della Gramsci Society)


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