LA LEGGE FERREA DELL’OLIGARCHIA

by Editore | 14 Marzo 2012 11:24

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Divengono quei difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento. Micidiali perché ben più agguerriti dei sempre tiepidi costruttori del nuovo. Anche le menti si chiudono, raggrinzite.
È quello che sta succedendo in Italia, nonostante l’evidente discontinuità  rappresentata da Monti. Sono mutati non solo gli stili di governo ma lo sguardo sulla crisi: non più occultata ai cittadini ma limpidamente spiegata, coi vincoli che essa impone. Troppo presto si è parlato tuttavia di fine della seconda Repubblica, di nuovo inizio. La legge ferrea dell’oligarchia permane, e in alcuni momenti sembra perfino consolidarsi. Lo si nota soprattutto in due campi d’azione:la costruzione dell’Europa, e la cultura della legalità  ovvero la lotta alla corruzione.
I due ambiti non sono affatto disgiunti: ambedue son figli di abitudini a cerchie recintate. Edificare un’Europa politica e federale implica l’abbandono di sovranità  nazionali ormai fittizie, sotto il cui tetto sono cresciuti potentati incompetenti ma tutt’altro che indifesi. Allo stesso modo, creare in Italia una cultura della legalità  implica una lotta senza cedimenti all’intreccio fra Stato e mafia, politica e corruzione: intreccio confermato proprio in questi giorni dalla condanna del boss palermitano Tagliavia. L’appello di Saviano a profittare della crisi per varare subito una legge anti-corruzione invita a rifondare le due cose insieme: Europa e legalità .
Vale la pena ricordare come nacque la moneta unica. Tra i pericoli indicati da Kohl ce n’era uno, di cui si parlò poco ma cui furono dedicate più riunioni ristrette: la mafia in Italia, e la sua congiunzione con le mafie dell’Est. Un libro uscito in quei tempi (Octopus, 1990), scritto da Claire Sterling, certifica questo timore: che l’Europa monetaria, invece di frenare la degenerazione della politica, le fornisse in realtà  un ombrello protettivo. La moneta senza Stato europeo perpetuava l’illusione degli Stati sovrani, non più minacciati da svalutazioni monetarie che sempre erano state,in passato, momenti di crisi governative e di verità .
Quel timore non era infondato. Lo si è visto in Grecia (la sua piaga è la corruzione) e lo si vede in Italia. L’articolo 18 viene presentato oggi come inibitore di una rinascita. Ma gli specialisti dicono ben altro: se gli stranieri non investono da noi la causa non è l’articolo 18. È la mafia, l’assenza di leggi anti-corruzione. La paura che l’Italia incute dai tempi di Kohl è sempre quella.
Non è casuale dunque che i difensori del vecchio ordine s’aggrappino a due sovranità  finte e al contempo distruttive: la sovranità  dello Stato-nazione, e il diritto all’impunità  di potentati che all’ombra dell’euro hanno confiscato la politica, impedendo che essa si rigenerasse e non tollerando incursioni giudiziarie. Il governo Monti non è sempre responsabile (il giudizio sulle sentenze non gli spetta) ma è vero che lascia fare (come lascia fare sulla Rai) con la scusa che prioritari sono i parametri economici. La battaglia anti-corruzione è tema politico e i tecnici, anche se pienamente legittimati a governare, sono nell’intimo allergici alla politica. Ne hanno addirittura «schifo»: la piccola frase detta da un ministro non cade dal cielo. Quanto all’Europa, il governo è più refrattario del previsto, considerate l’esperienza e le convinzioni recenti del Presidente del Consiglio. 
Cominciamo dall’Europa. Anche qui la discontinuità  è palese: la nostra voce non è screditata come ai tempi di Berlusconi. Ma la politica estera non è solo quella descritta dal ministro Giulio Terzi: «promuovere l’immagine dell’Italia credibile sulla scena internazionale». Urgente, oggi, è scoprire le radici politiche della crisi europea, e fabbricare un’unione sovranazionale: con la Commissione che sia governo federale, un Parlamento che rappresenti l’agorà  europea, un Consiglio dei ministri che diventi Consiglio degli Stati, come quando gli Stati Uniti passarono dalla fallimentare Confederazione alla Federazione (tra i suoi primi atti ci fu la messa in comune dei debiti). È la proposta fatta il 7 febbraio da Angela Merkel, e l’intento è serio se Guido Westerwelle l’ha ripresa, sabato in una riunione di ministri degli Esteri a Copenhagen: prospettando una revisione della carta costituzionale europea e l’elezione diretta dei futuri Presidenti dalla Commissione.
A quest’iniziativa il governo italiano risponde per ora con un no. Ha cominciato Monti, l’11 gennaio sulla Welt, proclamando che degli Stati Uniti d’Europa «non c’è bisogno». Il no opposto da Terzi a Copenhagen è ancor più pesante, alla luce delle proposte tedesche: l’Italia comprende «l’esigenza, posta da diversi Stati membri, che superata la fase più critica della crisi finanziaria si riprenda una riflessione sulla visione dell’Europa». Ma ritiene «estremamente prematura» una nuova Carta costituzionale: « Non mi spingerei a dire che c’è una prospettiva di rilancio». Da chi e perché il ministro ha avuto il mandato così poco ardito?
Nell’ambito della giustizia è avvenuto qualcosa di non meno grave, che concerne non il governo ma i magistrati e la maggioranza parlamentare. Al centro dello scontro: non tanto la sentenza della Corte di Cassazione che ordina di rifare il processo d’appello a Dell’Utri, ma la spiegazione data dal procuratore generale della Cassazione Iacoviello («Nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»). Sotto attacco, la figura giuridica escogitata tra gli anni ’80 e ’90 da Falcone e Borsellino con un proposito preciso: far luce sulle collusioni dei politici, dei partiti, dei colletti bianchi che, pur non essendo affiliati alla mafia, la favoriscono e l’innalzano a interlocutore dello Stato. Il «concorso» è complicato da individuare – Carlo Federico Grosso lo spiega bene su La Stampa– perché bisognoso di prove stringenti. Ma è «utile per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia».
Anche in questo caso, i poteri insediatisi al posto della politica hanno reagito presidiando le leggi ferree dell’oligarchia. Il secondo partito della maggioranza, il Pdl, è saltato sull’occasione con fare vendicativo. La sentenza non scagiona Dell’Utri, ma è interpretata come sconfessione dei magistrati, se non come assoluzione. Permette di fronteggiare, soprattutto, un’incombente minaccia: il disvelarsi di patti Stato-mafia che forse condussero all’uccisione di Falcone e Borsellino. Il disvelamento rischia di denudare la nostra malata politica democratica.
Il potere oligarchico, corrotto o no, fatica a lasciar posto al nuovo, a reinventare la politica. Si arrocca, in casa e in Europa (lo Stato sovrano ha analoghe strutture oligarchiche). Fa parte dell’uscita dalla crisi anche questa restituzione alla politica di spazi, di iniziative libere da pressioni. La politica fa schifo solo a chi non la vuol fare. Solo a chi combatte lo status quo molto tiepidamente, come nelle parole di Machiavelli: «La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità  delli uomini; li quali non credono in verità  le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza». Una ferma esperienza dell’europeismo dei governanti, e della volontà  della politica di combattere le corruzioni: i cittadini ancora non la vedono nascere. Ma di sicuro l’aspettano. La sperano dal primo giorno del governo Monti.

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