La guerra alla francese

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L’autore di L’Art franà§ais de la guerre, Alexis Jenni, che ha vinto l’ultimo Premio Goncourt, insegna biologia in un liceo di Lione, la sua città . Ha quarantotto anni e tre figli, e quello che campeggia ormai da mesi nelle librerie di Francia (in Italia uscirà  da Mondadori nel 2013) è il suo primo romanzo. Il suo primo romanzo pubblicato. Lui ne ha scritti molti altri rimasti inediti. Da anni, dopo la scuola, si rifugiava in un bistrot e riempiva pagine che gli editori puntualmente rifiutavano. Era ormai rassegnato ad essere un “écrivain du dimanche”, un inventore di storie senza avvenire, insomma a scrivere come altri vanno a pescare, dice adesso ridendo. Poi, all’improvviso, dopo tanti insuccessi, dopo tante bocciature in letteratura, bocciature probabilmente immeritate, è arrivata la consacrazione del Goncourt, la promozione che ha fatto di lui uno dei romanzieri più letti di Francia. Mi conforta l’idea di avere dedicato quattro giorni a un libro (di più di seicento pagine) in compagnia di tanti altri ammalati di lettura. 
La storia parte da un presente grigio, appesantito dalle frustrazioni, e risale alle guerre francesi degli ultimi decenni. Guerre che incollate le une alle altre, cancellati gli intermezzi, fanno una guerra di vent’anni. Una lunga guerra dimenticata. Il testimone-protagonista è un ufficiale a riposo, combattente nella resistenza contro gli occupanti tedeschi e poi paracadutista nei conflitti coloniali d’Indocina e d’Algeria. Il narratore è un giovane anonimo. Un giovane sfaticato alla ricerca di espedienti per giustificare le frequenti assenze dal lavoro. Che fa l’amore. Che sbevazza. Che guarda film di guerra. E che un giorno incontra per caso, in un caffè, un anziano capitano, incarnazione dei suoi finti eroi dello schermo.
Si chiama Victorien Salagnon ed è disposto a rievocare, con un misto d’orrore e pudore, e con inevitabile ambiguità , le sue campagne militari. L’ex paracadutista Salagnon ne ha viste di tutti i colori sui campi di battaglia. Onore e vergogna. Dipende dalle guerre. Ce ne sono infatti di tanti tipi. E lui, Salagnon, non ne ha persa una. Giuste o sbagliate le ha fatte tutte. Se quella che ha combattuto per cacciare gli occupanti nazisti dal suo paese merita rispetto, o addirittura la gloria, quelle coloniali successive, l’Indocina e l’Algeria, l’hanno trascinato dritto nell’ignominia. Stragi, torture. Lui ha cercato di limitarsi al dovere di soldato, ha dato il suo coraggio personale. Ma nella memoria, non solo storica, la complicità  nelle azioni criminali travolge gli argini individuali. La ferita inferta all’umanità  diventa collettiva. 
Un eroe? Chi è? Meglio, che cos’è? Uno scrittore-filosofo (Paul Quignard) ha una sua teoria: non è né un uomo vivo né un uomo morto. È uno che finisce nell’altro mondo e ritorna. Traduco: può andare all’inferno come in paradiso e ritorna sulla terra. Il capitano Salagnon è stato dappertutto. Su e giù. Non ha in merito idee molto chiare. 
A dargli un certo candore è la sua passione per il disegno a inchiostro, in cui si è perfezionato con passione in Estremo Oriente, tra due cannonate o tiri di mortaio. Adesso racconta le imprese belliche cui ha partecipato all’amico occasionale, incontrato all’osteria, e al tempo stesso gli insegna a tracciare punti e linee, alla base di quel disegno che si pratica con una penna o un pennello o un aerografo. Il continuo passaggio dalla sanguinosa e caotica arte della guerra alla limpida precisa arte della pittura gli ha consentito di sfuggire ogni tanto alla puzza dei cadaveri e agli interrogativi morali, e di aspirare boccate di purezza. Come se gli ampi spazi vuoti, sui fogli popolati di sofisticate figure, fossero serbatoi di ossigeno incontaminato. Il vuoto è meglio del pieno perché il pieno è immobile, ma il pieno esiste e a un certo punto bisogna violare il vuoto. Questo insegna all’allievo il maestro, per il quale il disegno era un antidoto ai veleni della violenza.
Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che il capitano Salagnon fosse l’unico pittore a inchiostro dell’esercito coloniale francese in Indocina e in Algeria. Gli capitava di dipingere per giorni e giorni, senza fare nient’altro. Aveva così l’impressione di salvare l’anima. E con l’anima la vita. Eccentrico ma generoso maestro, il capitano a riposo inizia a quell’attività  catartica il giovane, gli regala un pennello con i peli di lupo, continuando nei suoi ricordi di guerra. Cosi il giovane diventa l’allievo di un improvvisato corso di Belle Arti e il narratore senza nome nel romanzo nato dalle confessioni del reduce.
Seicento e più pagine! Si è tentati di dire tante, troppe, ma la lettura scorre veloce, con un diagramma tutt’altro che piatto, anzi con punte avvincenti, con impennate sollecitate da uno stile destinato, si spera, a non disperdersi nella traduzione. Il passaggio da una lingua latina all’altra è fitto di trappole, proprio per la parentela. La guerra del capitano Salagnon è lunga. L’autore usa la sua forte prosa alternando capitoli ricchi di meditazioni, in cui non mancano toni da requisitoria, e capitoli d’azione sui teatri di guerra indocinesi e algerini, che non di rado raggiungono i ritmi dei classici. Il professore di liceo, sia pure di biologia, non ha dimenticato i grandi poemi di guerra. 
Il titolo viene da lontano, da almeno cinque secoli prima di Cristo e dalla Cina. Alexis Jenni si deve essere ispirato a quello del primo celeberrimo trattato di strategia militare attribuito a Sun Tzu, e tradotto dal cinese duemila duecento anni dopo dal gesuita Amiot. Alexis Jenni ha infatti battezzato il suo romanzo L’Art franà§ais de la guerre, aggiungendo al titolo di Sun Tzu l’aggettivo che gli dà  un’identità  nazionale. L’arte della guerra può essere riassunta in poche parole, stando alla dottrina cinese delle origini. Essa si basa sul principio del non fare, non per pigrizia, ma perché bisogna seguire il corso degli avvenimenti. Il francese Jenni dice ancor più razionalmente che la guerra è una pulsione infantile, è il modo più semplice di gestire le cose, la pace essendo più complicata. 
Alcune pagine del romanzo, che invito ancora una volta a leggere, mi sono dispiaciute. Quelle in cui l’autore insulta Gillo Pontecorvo per il suo film La battaglia d’Algeri, denunciando omissioni e inesattezze. Gillo apparteneva a una grande famiglia ebrea e durante la Seconda guerra mondiale era stato uno dei responsabili della resistenza in una grande città , a Milano. È anche ricordando quell’esperienza, di cui non parlava mai, che dopo lunghi soggiorni ad Algeri, quando il conflitto era ancora in corso, ha ricostruito la guerriglia urbana e la repressione in quella città . La guerriglia urbana non la guerra d’Algeria. Il suo è un film epico su quel preciso capitolo. Strano, anzi peccato, che Alexis Jenni non l’abbia capito.


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