LA DEMOCRAZIA ALLA SFIDA DELLE RIFORME

by Editore | 6 Marzo 2012 10:59

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Solo perché gli elettori non potevano scegliere i candidati o per il peso di un assurdo premio di maggioranza? Oppure solo perché i regolamenti delle Camere non facevano governare i governi (che però hanno fatto ciò che hanno voluto)? Oppure solo perché i parlamentari sono troppi e costano e il presidente del Consiglio non può cambiare qualche ministro?
Di queste cose è bene certo occuparsi, per rimediare. Ma si deve anche capire che la causa prima del fallimento democratico è stato il deperimento della cittadinanza in ogni sua forma: nazionale, giuridica, territoriale. 
La cittadinanza nazionale si è depressa per la diffusa percezione di essere lasciati nudi, senza intermediazione, difronte alle decisioni che venivano prese a Bruxelles, come se non ci fossero anche ragioni “nostre” da prendere in conto.
Il “partito per la crescita” che si è formato nell’Unione europea, in alternativa al tradizionale asse Francia-Germania, con il forte protagonismo di Mario Monti, può ora ridare voce ai cittadini italiani nell’Unione. Al di là  di quanta parte del manifesto dei 12 Stati andrà  davvero in porto, si è creato un gruppo che non crede più all’unanimità  passiva. È essenziale esserci in questa minoranza attiva contro il fatalismo economico. Ed è importante che i cittadini abbiano di nuovo la sensazione dell’appartenenza ad uno Stato all’avanguardia e non al rimorchio dell’Unione europea.
La cittadinanza giuridica si è degradata per la difficoltà  di far valere i diritti individuali, compresi quelli del lavoro e delle imprese. Gli ultimi tempi della Repubblica hanno mostrato, anche in costi economici, quanto sia grave la distanza tra le richieste di giustizia e quello che il servizio giudiziario riesce veramente a dare. Lo sparpagliamento dei tribunali, le responsabilità  di lavoro dei giudici, le lentezze dei processi sembrano ancora quelli del dolente monologo di Amleto. Anche se questi guasti sono stati nascosti per anni dal più grave disordine provocato da pretese di giustizia basate su leggi personali. 
Ma l’ultimo ventennio repubblicano ha mostrato anche la difficoltà  di difendere i diritti politici per la rottura di bilanciamenti, contrappesi, tutele: cioè dell’equilibrio interno della Costituzione.
Oggi c’è grande prudenza e ragionata moderazione in giro: anche da parte di chi fino ad ieri rivendicava spavaldamente immunità  ed eccessi di un regime di assolutismo maggioritario. E quindi strepitava e minacciava contro gli “impedimenti” da ultima spiaggia (capo dello Stato, Corte costituzionale) che riuscivano ad evitare a stento le più profonde lacerazioni.
Benissimo. Il ravvedimento operoso è ricchezza per una nazione che, nel momento del più acuto impoverimento, ha bisogno della sua unità  come più preziosa risorsa comune. Ma è anche utile che tutti, a destra e a sinistra, quale sia stato il loro ruolo nel ventennio, non dimentichino come e perché siano saltati i sistemi di sicurezza democratica. 
È stato soprattutto dannoso il “muro contro muro”, senza intercapedini, tra maggioranza e minoranza. Ora non c’è più bisogno di “immaginare” – perché già  si sono verificati – gli effetti della profezia di Aldo Moro, il giorno prima del delitto: «Che cosa accadrebbe se questo Paese dalla passionalità  continua e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo?».
Lo abbiamo visto. E perciò tra maggioranza e minoranza occorre che la linea d’opposizione tra i “più e i meno” di cui parlava Moro sia demarcata e temperata da una serie di garanzie costituzionali. Questa operazione non è una cosa di sinistra o di destra. Nessuno sa chi vincerà  le elezioni del 2013. Sappiamo però fin da oggi che la nostra democrazia esce da un periodo a rischio. Impedire che questo rischio torni a ripetersi è l’idea che deve guidare i riformatori. Nel 2008 la Francia “democratizza” la sua vecchia Costituzione. Nel 2012 l’Ungheria, invece, con la sua nuova costituzione ammazza la democrazia. Ecco vicini esempi europei di un “uso alternativo” del riformismo costituzionale.
Da qui la necessità  di “ricostruire” istituzioni che, con meccanismi comprensibili alla gente, diano sicurezza democratica. In un certo senso istituzioni che, con la loro semplicità  di congegni elettorali e di controllo, svolgano anche una funzione di aggregazione sociale: quasi per aiutare i partiti a recuperare la missione politica che hanno smarrito.
Una missione difficile perché non ci sono più punti di riferimento. In ogni zona d’Europa si è all’affannosa ricerca delle politiche giuste contro una crisi distruttiva di pubbliche ricchezze e creatrice di corrosive disuguaglianze. E per di più, bastano cinque righe di comunicato di un Consiglio europeo per fare carta straccia dei libroni con cui i vecchi partiti usavano “condensare” i loro programmi.
Le vicende miserevoli, dentro i partiti, di corruzioni e di falsi sono perciò vicende tutto sommato minori rispetto alla autentica tragedia della loro incapacità  di aggregare stabilmente, intorno ad un progetto, pezzi di società . 
È evidente che si deve ricominciare da principio, ripensare la vita della comunità , la sua storia, le forme della sua rappresentanza in un contesto sovranazionale. Ma il tempo si è fatto stretto, ha detto qualche giorno fa il presidente della Repubblica. Ci sono davvero pochi mesi, non si può fare tutto. È giusto procedere a spezzoni. Ma se si vuole dare un significato alle cose per riaffermare il senso di una politica, quegli spezzoni devono ritrovarsi in una narrazione logica.
Una narrazione che forse non c’è ancora nelle “bozze” di riforme istituzionali che circolano. Così, sembrano fuori dal reale le formule elettorali che prefigurano decisioni su alleanze e fronti che oggi – e forse anche tra un anno – poggiano letteralmente sul nulla. Nessun sondaggio può ora misurare il vero peso dei partiti e movimenti. Salvo il peso degli “indecisi” che può attirare tutto il resto in un insondabile gorgo. Né i partiti hanno espresso una qualche originale linea di resistenza contro l’invasione dei nuovi poteri del mondo.
Così, quando si parla di regolamenti delle Camere, giustamente ci si preoccupa di dare tempi certi alle decisioni del governo. Ma il futuro Parlamento potrebbe risultare un arcipelago di minoranze. E sarà  essenziale allora dare a queste la possibilità  di essere tutelate contro le decisioni di maggioranza anche davanti ai giudici costituzionali. Così come avviene in tutta Europa, del resto. Decidere è sempre più difficile ma anche sempre più necessario. E cresce naturalmente il rischio di decisioni sbagliate. L’unica ragionevole misura è quella di contenerle comunque negli argini della legittimità  costituzionale.
Così, quando si parla di ridurre, com’è giusto, il numero dei parlamentari, si sente però, anche qui, lo slegamento da qualcosa di vitale. Ed è la insufficienza di una rappresentanza unicamente “politica” in una società  che ha bisogno di rinsaldare visibilmente vincoli di prossimità  per una cittadinanza anche territoriale. Non è difficile ricominciare a raffigurarsi una Camera per questa diversa rappresentanza. C’è financo pronta da dieci anni una legge costituzionale che potrebbe avviare subito almeno una Commissione di rappresentanza mista.
Insomma, il filo conduttore delle riforme che si stanno tentando non può essere che quello antico della cittadinanza democratica. Per ristabilirne l’autonomia politica a tutti i livelli: nazionale, giuridico, territoriale.

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