La Cina scopre il deficit

by Sergio Segio | 12 Marzo 2012 18:16

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Febbraio è un mese particolare: c’è il capodanno lunare, la gente lavora di meno e consuma di più. Ma i dati anno su anno rendono questo febbraio ancora più singolare: le importazioni sono infatti salite del 39,6 per cento rispetto allo stesso mese del 2011, mentre le esportazioni sono scese del 18,4, toccando quota 114,5 miliardi.
A Pechino sono preoccupati perché il deficit è stato superiore a quanto previsto dagli stessi economisti cinesi, che ipotizzavano un saldo negativo di 8,5 miliardi.

L’aumento del deficit significa che i cinesi stanno “americanizzandosi”? Non ancora.

Secondo gli analisti, a parte la tradizionale festa nazionale, è stata la crisi dell’Europa a rallentare l’export della Cina. Allo stesso tempo, sono però aumentate le importazioni e i prezzi delle materie prime necessarie a mantenere in vita l’apparato industriale.
Così, se gli economisti prevedevano un aumento delle importazioni del 26 e delle esportazioni del 29 per cento, si sono invece ritrovati rispettivamente con un + 39,6 e solo un +18,4 per cento.
È come se Pechino continuasse a pompare benzina (sempre più cara) nel motore di un’automobile che resta ferma in box.

Urge quindi cambiare il modello economico basato sull’export, anche perché le previsioni da qui a un anno dicono che il greggio passerà  dagli attuali 106-107 dollari al barile a circa 125. I rincari delle commodities producono inflazione generalizzata e aumentano quindi il rischio di disordini sociali.

Se la Cina vende meno all’estero, deve sperare nella domanda interna. Al tempo stesso, deve però farsi più efficiente dal punto di vista energetico per contenere le importazioni di materie prime. Detto in altre parole, è necessario che la sua economia diventi più moderna: più consumi e più produzione di merci ad alto valore aggiunto. Quindi, più innovazione tecnologica.

Il punto è che dopo la grande crisi, la tradizionale economia “dei galeotti incatenati” – la Cina vende agli Usa (ma anche all’Europa) che si indebitano ed emettono bond, che Pechino ricompra, finanziando di fatto il deficit statunitense e accumulando riserve di valuta nei propri forzieri – non funziona più: la ripresa dell’occupazione negli Stati Uniti è sempre vacillante, quindi non si può fare troppo affidamento sul proverbiale consumismo americano.  Le autorità  cinesi hanno per altro sempre imputato lo scoppio della bolla finanziaria alla scarsa cautela delle politiche economiche statunitensi, mal celando anche un certo risentimento.
Quanto all’Europa, a Pechino non sanno neppure se continuerà  a esistere così come la si conosce. Da sempre, i cinesi criticano la (per loro) incomprensibile vocazione europea a non parlare come voce sola.
Non si può più fare affidamento sugli altri: questa è la grande lezione che la Cina ha imparato dalla crisi.

Se è quindi praticamente certo che la trasformazione dell’economia cinese sia ormai un’urgenza politica – ne va della stessa indipendenza del Dragone – altro discorso è scegliere come questa trasformazione vada gestita. Banca Mondiale e ala neoliberista all’interno del Partito chiedono che lo Stato si faccia almeno parzialmente da parte per lasciare libero corso all’iniziativa privata: la sola – dicono – in grado di garantire competitività  ed efficienza.
D’altra parte, la storia economica degli ultimi trent’anni dice anche che la gestione centralizzata ha avuto un ruolo fondamentale nel boom senza precedenti. È l’altra faccia della medaglia rispetto ai baracconi improduttivi e alla corruzione che connotano il capitalismo di Stato. E senza lo Stato, come crei quel welfare che dovrebbe trasformare i cinesi da produttori a consumatori?
Infine c’è la storia-storia, quella di lungo periodo: può l’imperatore non controllare ciò che succede alla periferia dell’impero piuttosto che nei meandri dell’economia? Da qui a ottobre 2012, quando cambierà  la leadership cinese, ne capiremo di più.

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