LA CAMERIERA AL SERVIZIO DELLA GRANDE POETESSA

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Di Margaret Forster avevo letto qualche tempo fa una brillante introduzione a Flush, quel capolavoro minimo, ma pur sempre un capolavoro, che Virginia Woolf pubblica nel 1933, e che sarebbe niente di meno che la biografia del cocker spaniel della “poeta” Elizabeth Browning, née Barrett. Dico “poeta”, perché Elizabeth odiava la parola “poetess”, e preferiva l’uso del neutro “poet”. Non che Elizabeth fosse una femminista, né si unì mai apertamente a chi lottasse in tal senso. Era però una donna che ci teneva e molto alla propria indipendenza, e aveva un giusto amore del proprio talento, che non era ai suoi occhi affatto inferiore a quello di un uomo. Anzi, Robert Browning, poeta, amante e poi marito, le confermava che tra loro il poeta più grande, e peraltro più noto, immensamente più famoso, era senz’altro lei. «È lei il vero poeta» scrisse. E lo pensava; anche se poi negli anni crebbe la sua fama, mentre declinò quella della moglie. All’epoca loro, però, è Elizabeth a trionfare. E con un certo divertimento, come testimonia la risposta arguta che dà  a Edgar Allan Poe, il quale, nel dedicarle la poesia Il Corvo, la definisce «la più nobile del suo sesso». Beffarda lei replica: «E voi signore, siete il più intelligente del vostro». 
Cercando nel passato donne scrittrici di talento, per cominciare a identificare una tradizione di antenate, Virginia Woolf – che a tale compito si dedica con slancio femminista, radicale, politico e riconoscendo in pieno al genio femminile la sua interessante differenza; Virginia Woolf, dicevo, si accende per le virtù artistiche di Elizabeth Barrett Browning. E vuole saperne di più di questa misteriosa creatura invalida, che per anni vive isolata nella sua camera in penombra, sprofondata in una astenia malinconica, con la sola compagnia della cameriera personale e del cane, dell’oppio e del laudano, e scrive poesie… Finché un poeta più giovane di lei le esprime per lettera la sua ammirazione, chiede di poterla incontrare per parlare di poesia, lo fanno, si innamorano, in segreto si sposano e fuggono in Italia…
Ci sono tutti gli elementi per una storia d’amore, che più romantica non si può. Ma Virginia non scrive quel genere di romanzo. Osserva invece la vita di Elizabeth con gli occhi del suo cane. Ne esce Flush, un esperimento di genere bastardo, di suprema ironia e infinito divertimento, che racconta vita e opere di un soggetto di per sé strano, inquietante nel secolo vittoriano – e cioè, una donna intellettuale. 
Margaret Forster ora riprova ad avvicinare quell’animale bastardo – la donna colta, la donna artista Elizabeth Barrett Browning – da un altro punto di vista, quello della cameriera. Lady’s Maid è il titolo del romanzo in inglese, che nella traduzione italiana di Fenisia Giannini Iacono diventa Lo sguardo di Lily. Nessuna incertezza formale, nessun esperimento di genere: questo è un romanzo in terza persona, con autore onnisciente; e in parte un romanzo epistolare, che affida alle lettere, che la cameriera scrive alla madre, alle sorelle, alle poche amiche, la funzione teatrale dell'”a parte”, o del monologo. Sì che noi all’inizio avanziamo nella lettura sotto lo stimolo della curiosità  per le vicende della famosa Elizabeth; curiosità  che però via via cede rispetto al fascino e all’emozione e alla compassione che suscita Wilson, con la sua storia.
Voglio dire: è più appassionante la vita della “serva”, piuttosto che il romanzo della “padrona”. Ed è così, perché così vuole Margaret Forster, che fa di Lily, ovvero Elizabeth, Wilson, chiamata per cognome in quanto serva, la vera protagonista di questo romanzo, che mette en abà®me della rappresentazione il gioco perverso della dialettica serva-padrona. 
Lily entra nella camera dell’invalida nel 1844. E da quel momento in poi scivola in una impressionate intimità  con la padrona, della quale diventa l’alter ego. È essenziale per la padrona, essenziale al matrimonio, alla fuga in Italia, al parto, alla crescita del figlio, alla poesia. È lei che sorregge alle fondamenta la struttura di vita che dà  alla scrittrice il tempo della scrittura. Ma accade al tempo stesso che Wilson si trovi a pensare cose che mai prima le erano passate per la mente. E si scopre avida: sì, di bellezza, di amore, di felicità . Tutte quelle cose buone che la padrona s’è conquistata e le ha insegnato. 
Viene trattata in modo umano, certo. Quasi fosse un’amica. Fino al momento, però, in cui il suo diritto alla vita interferisce con quello della padrona. A quel punto l’egoismo della padrona vince sull’affetto, sulla riconoscenza. La padrona Elizabeth, che si dichiara apertamente contro il razzismo, felice per questo di non essere americana, proprio mentre corregge le copie di Aurora Leigh, il romanzo-poema in blank verse che rivendica l’indipendenza femminile, licenzia Wilson, la separa dal marito, dal figlio. L’esistenza libera della cameriera complica la vita della signora. La serva non ha gli stessi diritti.
Servire, andare a servizio sono termini oggi quasi scomparsi dal nostro vocabolario. Questo bel romanzo di Margaret Forster ci costringe a riascoltare il loro suono grave dentro i rapporti che tuttavia ancora oggi corrono tra noi donne emancipate e “padrone” e le nuove “schiave” dalle quali compriamo il tempo della nostra libertà .


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