La buona scuola Se l’innovazione sale in cattedra
Il movimento è sotterraneo, carsico, indipendente, refrattario alla burocrazia e spesso anche alle luci troppo forti. È fatto di professori, maestri, ragazzi, presidi, genitori. Batte nel cuore profondo della scuola, quella che resiste, quella che prova a ritrovarsi, come se arrivati all’anno zero (zero fondi, zero prospettive, zero motivazione), da una rete diffusa di realtà piccole e grandi, primarie, secondarie, licei, istituti tecnici, stesse emergendo una reazione dinamica, vitale, magari imperfetta ma autentica. Scuola-villaggio, scuola-agorà , scuola-comunità , 2.0, senza zaino, web-school, “book in progress”: bisogna andare dalla Puglia alla Toscana, dalla Lombardia al Lazio, spesso in provincia, tra paesi e borghi che si consorziano in comunità di saperi, per capire e scoprire germogli e fermenti del nuovo.
Come in questo Liceo Scientifico Tecnologico alla periferia Brindisi, brutta edilizia in una regione al terzo posto in Italia per dispersione scolastica, 23,4% i giovani che ogni anno disertano gli studi, un tasso di abbandoni altissimo in un’area flagellata dalla crisi, e dove il Petrolchimico fino a pochi anni fa dava lavoro a 12mila famiglie oggi invece ridotte a 700. Eppure qui, all’Itis “Ettore Majorana” è nato tre anni fa il progetto “Book in progress” una scommessa vinta ed esportata in tutto il Paese e già adottata in 70 scuole. Perché c’è chi si autoproduce i libri di testo (book in progress) e chi rivoluziona la didattica dei bambini, ritrovando Maria Montessori e magari Rudolf Steiner. Chi punta sulla tecnologia, chi sullo studio senza libri, chi si propone come diga al disagio delle famiglie, chi alfabetizza, insieme agli studenti, anche i loro genitori. Ci sono scuole che offrono ai prof dei coach che li ri-motivano al piacere dell’insegnare, e docenti che, gratuitamente, si mettono a scrivere libri di testo.
«Parliamo mentre stampo un libro», chiede il preside del Liceo Scientifico Tecnologico Ettore Majorana, Salvatore Giuliano, 45 anni, da tre alla guida di questo istituto che oggi fa parte della rete delle 15 scuole italiane certificate 2.0, ossia con alta dotazione tecnologica. Risultati ai test Invalsi di 10 punti superiori alla media, e una visita del ministro dell’Istruzione Profumo nel dicembre del 2011. «Ricordo che era il 2007, eravamo alle prese con la scelta dei libri di testo, ogni anno più cari e spesso fatti male, poco comprensibili… L’idea fu immediata, semplice: perché non proviamo a scrivere e stampare da soli i nostri manuali, con la competenza di tanti anni di insegnamento, in modo da far risparmiare drasticamente le famiglie e aiutare i ragazzi?». Il progetto passa, i libri vengono elaborati dai docenti, stampati e venduti a pochi euro, il semplice recupero delle spese di tipografia. Genitori entusiasti, ragazzi anche. Ma a quel punto il (vulcanico) preside Salvatore Giuliano rilancia: «Ho convocato le famiglie, e ho chiesto loro di comprare un Pc ai propri figli con i soldi risparmiati dai libri di testo… Del resto per i manuali avevano speso soltanto 35 euro contro i 350 che ci vogliono di solito all’inizio di un ciclo secondario. L’adesione è stata totale, ed è iniziata la rivoluzione tecnologica della scuola».
Dal risparmio all’investimento, economia di base. Arrivano le Lim, le lavagne interattive, si crea la rete, si possono seguire da casa le lezioni, le aule diventano connesse tra di loro, lo spazio da fisico si trasforma in virtuale. Il progetto “Book in progress” valica i confini del Majorana e comincia ad interessare sempre più scuole, che via via adottano il sistema. «È tutto lavoro gratuito. Scrivere, stampare, impaginare, spesso di domenica, d’estate, ad agosto – raccontano Maria Rosaria Serio e Gioacchino Margarito, docenti di Chimica – ma mettere a disposizione degli studenti il proprio sapere affinato in tanti anni, invece di far comprare loro un qualunque libro di testo, magari approssimativo e superficiale, è davvero una bella soddisfazione. È stato come ritrovare passione nel lavoro».
E se “Book in progress” sta diventando una realtà così capillare che costringerà gli editori di libri scolastici a rivedere, probabilmente, prezzi e qualità dei testi, è risalendo verso il Lazio e la Toscana che si incontra l’esperienza di “Senza zaino”, definizione riduttiva per una nuova didattica che sta cambiando il volto della scuola primaria, già sperimentata dal 2002 in 35 realtà . Perché al di là delle classifiche, che vedono Biella al top delle scuole migliori d’Italia (all’avanguardia per alcuni istituti tecnici specializzati nel tessile, ponte verso le aziende), e il Sud (Reggio Calabria) agli ultimi posti, innovazioni e cambiamento si trovano a macchia di leopardo, nascosti magari in territori meno noti, più depressi, in affanno.
Da tre anni all’istituto comprensivo “eSpazia”, a Monterotondo, venticinque chilometri da Roma, paese meta di migrazioni della middle class dalla Capitale ma anche di molta immigrazione, si sperimenta una didattica particolare basata sul concetto di comunità . Un polo d’istruzione dove le parole d’ordine sono accoglienza e integrazione, i percorsi sono differenziati per ogni allievo e le lezioni frontali, cioè una per tutti, un ricordo del passato. E i prof sembrano entusiasti del loro lavoro. «Le nostre classi vanno dalle sezioni Primavera alla terza media, dai 2 ai 14 anni, con una idea di approccio globale all’insegnamento, e di cooperative learning, chi è più veloce aiuta gli altri, pur nel rispetto e nell’incentivo delle eccellenze», spiega Caterina Manco, dirigente scolastica dell'”eSpazia” dal 1993, anima e motore di questa scuola dove sempre più docenti chiedono di poter lavorare.
L’architettura dei corridoi è scarna ma ingentilita da disegni e murales, l’odore della mensa è buono, e basta entrare nelle classi che adottano il metodo “Senza zaino” per trovarsi in aule luminose, senza cattedre, ricche di materiali di ogni tipo, perché nulla si porta a casa ma tutto resta a scuola, in comune. C’è l’angolo dell’agorà (di discussione), l’angolo dell’autocorrezione dei compiti… E poi laboratori, classi aperte, lezioni “lunghe” per i ragazzi delle medie, 90 minuti invece dei soliti 60 per non frammentare il tempo dell’apprendimento, che però avviene in modo creativo, attraverso, anche, teatro, fotografia, grafica, musica, e naturalmente classi 2.0, classi Mac. «Per arrivare al contenuto ogni ragazzo sceglie il medium cioè lo strumento che preferisce, ma attraverso questa flessibilità impara ad imparare».
Ma la caratteristica di questo istituto comprensivo, in prima linea nell’accoglienza agli immigrati, ai bambini e ragazzi con handicap, nel riconoscimento dei disturbi dell’apprendimento, è il “tutoraggio” dei professori. Aggiunge con orgoglio Caterina Manco: «Chi arriva in questa scuola viene preso in carico da docenti già esperti nel metodo, e seguito giorno dopo giorno. Questo si traduce spesso in una sorta di ri-motivazione verso l’insegnamento, anche se qui si fanno più ore, viene richiesto più impegno, si passano a scuola intere giornate. E infatti c’è chi dopo qualche settimana chiede il trasferimento, e chi invece fa di tutto per lavorare con noi».
Ricorda Marco Barozzi, educatore e fotografo: «Appena arrivato qui mi hanno chiesto di occuparmi di tre ragazzi difficili, anzi difficilissimi… Del mio laboratorio di fotografia non gli importava davvero nulla, erano arrabbiati con il mondo e con la vita, violenti, ma attraverso quel laboratorio si è creato un contatto, una confidenza, che a poco a poco ha vinto le loro diffidenze e sgretolato quel muro. Oggi siamo amici e loro sono ragazzi sereni».
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