La base in rivolta «Ora referendum fra democratici»

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Enzo Foschi, un bersaniano che si però definisce «un democratico di sinistra», consigliere della regione Lazio, mette su Facebook questo suo post la notte di martedì. Piovono decine di adesioni. Nella notte la rete si scatena: sui siti ‘democratici’, su su fino al profilo facebook del segretario, esplode la rivolta. «Se il Pd continua ad appoggiare Monti deve smettere di definirsi di sinistra», Antonio. «Che la sinistra e il Pd facciano la loro parte in parlamento, anche sfiduciando il governo se necessario», Tommaso. «Bersani: se ci sei, batti un colpo». 
Ma fra gli iscritti prende velocemente quota la proposta politica che fa Foschi. Nasce un gruppo facebook: chiedere tesserati, e forse non solo, «se la riforma è potabile o no, per dirla alla Bersani», «Il Pd riunisca al più presto i suoi iscritti, li faccia esprimere e poi si decida. Non si permetta di scegliere sulla mia vita e sul mio lavoro, se chi lo decide non ha mai fatto ‘na jurnate e fatiche».Lo prevede lo statuto, all’articolo 27. Lo può chiedere «il segretario nazionale, ovvero la direzione nazionale con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti, ovvero il trenta per cento dei componenti l’assemblea nazionale, ovvero il cinque per cento degli iscritti al partito». Non ci sono precedenti, e ancora non c’è il regolamento attuativo. Ma farlo in tempi brevissimi «sarebbe molto più semplice di fare persino le primarie», insiste Foschi. «E se lo facciamo, dimostreremo che sull’articolo 18 la base non è affatto divisa, a differenza del gruppo dirigente. È da stamattina che ricevo telefonate di democratici sbigottiti. È una tema, quello del licenziamento dei lavoratori e delle loro tutele, come la giusta causa e il reintegro, su cui è opportuno, soprattutto in questo momento di crisi economica e occupazionale ma anche per il futuro delle giovani generazioni, chiedere l’opinione dei nostri iscritti, decidendo con loro la linea da seguire». Una consultazione, dunque, «dal risultato vincolante per i nostri rappresentanti sia alla camera sia al senato, al momento del voto. Sull’articolo 18 decidano gli iscritti e non solamente i gruppi parlamentari». 
Perché la strada che si apre per il Pd, dopo il rifiuto del governo di perseguire un accordo con le parti sociali sulla riforma del lavoro, è quella della frattura interna consumata sugli scranni del parlamento. Una strada a cui i gruppi parlamentari sembrano fatalmente destinati dopo il sì «a prescindere» alla riforma dichiarato da Enrico Letta e da Giuseppe Fioroni. Bacchettati subito da Massimo D’Alema, che invita tutti «a una maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni». Ma anche D’Alema poi indica la via degli emendamenti alla legge delega: «Nel testo ci sono alcuni aspetti positivi e altri aspetti sono da migliorare, e ora tocca al parlamento che è sovrano»). 
Ma se poi i «miglioramenti» non arrivano? Il parlamento è sovrano, i deputati per Costituzione votano in aula «senza vincolo di mandato». Ma il problema della rappresentatività  dei gruppi parlamentari (eletti nel 2008, epoca veltroniana) nel Pd si fa sempre più sentire, dai diritti civili all’articolo 18. E il referendum interno, che ha fan di peso in aree molto diverse del partito, da Ignazio Marino a Goffredo Bettini, potrebbe terremotare gli equilibri del gruppo dirigente. O, per dirla con un altro consigliere regionale del Lazio, Tonino D’Annibale, sarebbe «una straordinaria occasione di democrazia. Sull’art. 18 la discussione non può rimanere confinata all’interno del parlamento. L’apertura di un confronto su questo tema sarebbe una grande dimostrazione di partecipazione e trasparenza su questioni che sono di tutti».


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