Karzai fa il duro: «Yankee go home»

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Sono arrivate ieri le reazioni più temute – quelle politiche – alla strage compiuta dal sergente americano che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso 16 persone, tra cui nove bambini, nella provincia di Kandahar.
Durante un incontro con il segretario alla difesa Usa Leon Panetta, il presidente afghano Hamid Karzai ha infatti dichiarato di voler assumere la sicurezza del paese già  nel 2013, un anno prima di quanto previsto finora dai vertici Isaf-Nato, e ha chiesto che i soldati stranieri impiegati negli avamposti delle aree remote vengano trasferiti nelle loro basi principali.
Nonostante le apparenze, è difficile che Karzai abbia mostrato i muscoli a Leon Panetta, che mercoledì è scampato di poco a un attentato, quando è atterrato con il suo aereo nella base di Camp Bastion (ieri l’attentatore, che guidava una macchina finita in fiamme, è morto). Più probabile, invece, che i due abbiano concordato l’iniziativa, conveniente per entrambi: già  due giorni fa il New York Times segnalava l’impazienza dell’amministrazione Obama di accelerare il ritiro dall’Afghanistan, aumentando il numero dei soldati che lasceranno il paese alla fine del 2012. Quanto a Karzai, è consapevole di non essere in grado di gestire la sicurezza, ma ora gli fa comodo presentarsi – almeno a parole – come il protettore dell’«indipendenza» del paese, di fronte a una popolazione sempre più insofferente verso le truppe straniere. Lo dimostrano, tra le altre cose, i manifestanti che nei giorni scorsi sono scesi in strada a Kabul, Jalalabad e Qalat (cittadina non lontana dal luogo della strage) per chiedere che il colpevole della carneficina fosse affidato alla giustizia locale, anziché a quella degli Stati uniti. La loro richiesta resterà  lettera morta: quel soldato – membro del Combat Team della terza Stryker Brigade della seconda Divisione fanteria – è già  stato rimpatriato. Secondo il capitano John Kirby, uno dei portavoce del Pentagono, in Afghanistan gli americani «non hanno strutture adeguate per trattenerlo più di quanto abbiamo fatto». Eppure, continuano a gestire diverse prigioni, come il Parwan Detention Centre nella base di Bagram, la cui responsabilità  passerà  agli afghani solo tra qualche settimana, dopo un estenuante braccio di ferro tra Karzai e le autorità  americane. A questo punto anche i negoziati tra Stati uniti e Afghanistan sull’accordo di partenariato di lungo periodo diventano più complicati. Ma l’accordo probabilmente si farà . Come ha notato Thomas Ruttig, analista politico di Afghanistan Analysts Network, è fondamentale sia per Karzai, incapace di tenersi sulle proprie gambe, sia per gli americani, che dovranno controllare da vicino Iran, Pakistan e Afghanistan anche dopo il ritiro. Non è un caso che, con un’intervista all’emittente televisiva Tolo, anche il rappresentante civile della Nato a Kabul, Simon Gass, ne abbia ricordato la reciproca convenienza. Per poi ammettere che, nelle condizioni date, alla Nato non è più possibile parlare di vittoria: la fine delle ostilità  – ha sostenuto Gass – non può che avvenire «tramite un processo politico, dove per definizione non ci può essere una sconfitta e vittoria, altrimenti non si può raggiungere alcun accordo».
L’accordo però si allontana: con una dichiarazione ufficiale, i taleban ieri hanno fatto sapere di voler sospendere i negoziati con gli americani, accusati di avere un atteggiamento incoerente. Secondo i “turbanti neri”, gli americani sarebbero tornati sui loro passi, mettendo in discussione accordi già  presi relativi all’apertura di un ufficio politico in Qatar e al trasferimento di alcuni prigionieri da Guantanamo a Doha. Inoltre, negano che ci siano state trattative dirette con l’amministrazione Karzai. Per i seguaci del mullah Omar, che si presentano come un attore «con politiche trasparenti, competenze precise e un piano di lungo termine per ogni questione rilevante», finché ci saranno le truppe d’occupazione, parlare con Karzai è una perdita di tempo. E anche parlare con gli americani, fin quando non si decideranno a rispettare gli impegni presi.


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