Jusef, il figlio della pace porta la speranza a Srebrenica

by Editore | 28 Marzo 2012 6:30

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Ci vuole coraggio a sposarsi fra ex nemici e far figli a Srebrenica. Invece è accaduto. Nel luogo-simbolo del più grande massacro etnico d’Europa dopo il ’45, è nato Jusef, dopo la grande nevicata di febbraio. Un biondino di 4 chili, figlio di un colpo di fulmine fra due profughi di guerra: Almir Salihovic, 32 anni, musulmano, e Dusica Rendelic, 23, serba. Lui è tra gli ex adolescenti scampati al massacro e ha sei zii uccisi in quel luglio del ’95. Sono sepolti a sei chilometri da casa sua, nel cimitero-memoriale di Potocari, ottomila tombe con la stessa data di morte. Lei ha perso tutto con la fuga dei suoi da un villaggio croato, non ricorda quasi niente della tragedia ed è cresciuta in un campo profughi vicino a Valjevo in Serbia. Almir e Dusica si sono conosciuti a Tuzla, ed è stato amore a prima vista.
Lui le ha chiesto di vivere a Srebrenica, lei ha risposto di sì. «Sapevo di fare la cosa giusta» dice oggi di quel salto nel buio. Ha avuto fortuna: un’associazione di liberi coltivatori austriaci (Bauern helfen Bauern) ha regalato alla coppia un prefabbricato in legno e una stalla con tre capre. Un dono che in quella miseria somiglia alla salvezza. E oggi la nascita del maschietto a vent’anni dall’inizio della guerra semina consolazione in questo che è tra i luoghi più tristi della Terra. «La gente normale avverte questo segno di speranza» dice Valentina, giovane serba dell’associazione “Sara Srebrenica” per i diritti delle donne. E Diana, che si autodefinisce ancora “jugoslava” e prima della guerra è nata da un matrimonio misto (il padre è tra i corpi non ancora ritrovati dopo l’esecuzione di massa), osserva che le uniche critiche vengono dai partiti etnici che in vista delle elezioni locali di ottobre tirano già  l’acqua al loro mulino. 
Per uno stupefacente contrappasso, a Sarajevo i matrimoni fra serbi, croati e musulmani sono ricominciati – dicono le anagrafi – a un ritmo persino maggiore che prima del crollo della Jugoslavia. La vita ricomincia. Ma a Srebrenica, la città  del genocidio etnico, lo sposalizio di Almir e Dusica e poi la nascita di Jusef hanno fatto notizia e provocato anche reazioni negative sulla base degli stessi argomenti che incendiarono la Bosnia nel ’92. Tutto come allora: i politici filo-islamici accusano Almir di avere scelto una moglie senza hijab, quelli filo-serbi gridano all’islamizzazione del popolo slavo, tanto più che Jusef è stato registrato come musulmano. «Cudovisna tvorevina», creatura demoniaca, era definita vent’anni fa la Bosnia dalla propaganda di Belgrado, per questa sua anima bastarda segnata dai “matrimoni senza Dio” e oggi anche il biondo maschietto di Almir viene visto da qualcuno come figlio del demonio.
«Non ho sentito nessuna parola cattiva dai vicini» minimizza Dusica nella sua casa in abete in mezzo ai ciliegi in fiore, dove ai primi tepori ha preso ad allattare sulla terrazza con vista sui monti innevati. I veleni, dice, passano solo via web o sui giornali scandalistici. «Io e mio marito ci capiamo a meraviglia». sorride, «in casa festeggiamo sia il Bajram sia il Natale e rispettiamo i nostri credi rispettivi». Ma aggiunge: «Certo quando Jusef entrerà  nella maggiore età  (per la circoncisione, ndr), allora per una volta entrerò anch’io in una moschea». In Bosnia fino a ieri l’Islam è stato più cultura che fede, assunzione di nomi e cognomi di origine turca e nient’altro, ma oggi le cose sono cambiate. Gli imam e gli archimandriti premono sulle famiglie, spalleggiati per interesse dai politici nazionalisti. E nelle chiese il bordone del pope gareggia col muezzin sui minareti.
Ma che futuro avrà  il piccolo Jusef? «Nessuno sa cosa accadrà », allarga le braccia Almir, «qui musulmani e serbi parlano la stessa lingua. Il problema sono i politici, interessati solo alle loro poltrone». E anche la fede è uno specchietto per le allodole in questa terra precipitata nella miseria più nera. «Srebrenica negli ultimi due anni è regredita» spiega Roberta Biagiarelli, autrice-interprete di un grandioso monologo sulla strage e oggi spalla di Gianni Rigoni-Stern nella distribuzione di aiuti “in natura” (trattori e mucche da montagna) del Nordest italiano alle famiglie della zona. «Eccetto il Cesvi – dice – tutte le organizzazioni non governative se ne sono andate dopo aver donato persino troppo, e ora la città  è implosa. Srebrenica non fa più notizia, non è più palcoscenico. E ora è finito anche quel po’ di economi artificiale che la teneva in piedi. Anche la diaspora manda meno soldi dall’estero».
«La gente è contenta di questa nascita», dice al telefono l’operatrice umanitaria Azra Ibrahimovic, «ma poi le retoriche nazionalistiche la faranno irrigidire di nuovo. Ci si mettono di mezzo anche i sistemi scolastici, che non aiutano a costruire memorie comuni». Srebrenica? Tranquilla, dicono tutti. Ma è la tranquillità  della morte. Le vedove della strage, trasferite in massa a Tuzla, sono il fantasma di se stesse: le tirano fuori dalla naftalina per le celebrazioni per dimenticarle il resto dell’anno. Quelle rimaste vivono in povertà  e rischiano ogni giorno di incontrare per strada chi le ha stuprate, dentro una divisa della polizia. Non è un luogo semplice per le donne, Srebrenica. Ecco perché quella di Dusica è una scelta di coraggio.
«È una notizia stupenda e pazzesca» quasi piange la scrittrice Elvira Mujcic, italiana adottiva che ha perso il padre nella strage. «Ancora una volta la salvezza ci arriva dall’assurdità  dell’amore. Quel bambino è il primo frutto di quell’assurdità , dopo anni di odio. Finalmente un segno di speranza. Sono felice».

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