by Editore | 23 Marzo 2012 8:59
Per apportare a quel latifondo una serie di migliorie, il Banco di Sicilia aveva concesso al “Papa” un mutuo di un miliardo e mezzo di lire senza battere ciglio. Erano altri tempi e le banche, specialmente in Sicilia, non andavano tanto per il sottile con i mafiosi soprattutto se, come Michele Greco, frequentavano i salotti bene e conoscevano le persone giuste. Quel miliardo e mezzo, tramutatosi in una pesantissima ipoteca, per 25 anni è stata “l’arma” con la quale, nonostante la confisca, Cosa nostra è riuscita ad impedire allo Stato di riprendersi e far fruttare un pezzo del suo patrimonio. Solo ora, grazie alle insistenti pressioni del prefetto Giuseppe Caruso che ha quasi obbligato Unicredit a rinunciare a buona parte del suo credito e a rateizzare il resto, nei 150 ettari del feudo di Verbumcaudo, sulle colline delle Madonie, vero e proprio emblema della forza economica della mafia siciliana, è già partita la semina del grano e sta per essere realizzato un impianto di produzione prima di olivi e poi di vini e sorgerà la prima Banca vitivinicola siciliana. Purtroppo una goccia nel tempestoso mare del riutilizzo dei beni mafiosi, la trincea più avanzata della lotta alla criminalità organizzata dal sud al nord del paese, che rischia di essere travolta dall’inarrestabile onda d’urto dei gravami finanziari sui beni confiscati.
Un patrimonio conteso dalle banche
È un tesoro da 20 miliardi di euro quello che è stato sottratto alle mafie: aziende, società , edifici, case, magazzini, terreni, auto di lusso, barche, che il lavoro incessante di anni di magistrati e forze dell’ordine è riuscito a portare via dai bilanci di Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta. Il ministro della giustizia Paola Severino, alla commissione antimafia, ha dato una valutazione positiva dell’attività di contrasto fin qui svolta parlando di oltre il 50 per cento dei beni confiscati come già destinati ma il prefetto Giuseppe Caruso, da nove mesi direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati al quale è affidata la gestione di questo patrimonio, lotta contro un nemico a cui adesso ha dato un nome: le banche. Come è possibile, si è chiesto, che quasi l’80 per cento di questi beni è sostanzialmente ingestibile, al 65 per cento per i gravami ipotecari avanzati da decine di istituti di credito? «Ho già firmato oltre 200 istanze all’Avvocatura dello Stato per chiedere direttamente l’accertamento della buona o mala fede di chi ha concesso crediti ai mafiosi. È davvero impressionante constatare quante banche hanno erogato soldi senza verificare chi fosse il destinatario di questo fido». Oggi il rischio concreto è di mancare clamorosamente un obiettivo decisivo nel contrasto alla criminalità organizzata, la reimmissione in un circuito economico virtuoso dei soldi sporchi. Un bel problema considerato che adesso, a differenza di quando la competenza era del Demanio, l’Agenzia può destinare solo beni totalmente privi di criticità . Il che equivale a dire che un patrimonio da almeno 10-12 miliardi è totalmente a perdere. Un allarme rilanciato anche dal presidente di Libera, don Luigi Ciotti che con il circuito dei beni confiscati ha avviato un meccanismo virtuoso che produce e dà lavoro a centinaia di giovani. «Le banche dicono ai Comuni di pagargli l’ipoteca che il mafioso o il prestanome hanno fatto, ma le associazioni antimafia interessate al bene per un uso sociale non hanno i soldi per pagare un’ipoteca e le banche, salvo rare eccezioni, rivendicano il denaro. Questo è un nodo politico che va sciolto».
La strategia dei boss
Sicilia, Campania, Puglia e Calabria detengono il primato dei beni sottratti alle cosche, ma purtroppo anche i casi più eclatanti dimostrano come troppo spesso le confische siano delle occasioni sprecate. L’ultimo in ordine di tempo è quello del Parco dei Templari e della ex masseria di Altamura, in provincia di Bari, un meraviglioso parco da 66 mila metri quadrati con fabbricati per 8.500 metri quadri, valore stimato 16 milioni di euro, confiscato nel 2007 e gestito fino ad ora in una sorta di partnership pubblico-privato tra l’Agenzia nazionale e lo chef Gianfranco Vissani che aveva accettato la scommessa di rilanciare la struttura con 36 dipendenti. Alta cucina per banchetti e ricevimenti aveva anche assicurato un certo introito ma un buco finanziario da 600 mila euro ha indotto l’Agenzia a fare un passo indietro e a chiedere alla Regione Puglia di intervenire. Ma chi dovrebbe accollarsi l’onere di gestione di un bene così indebitato con le banche?
A Pomigliano d’Arco, la Masseria Castello, 8.000 metri di terreno e lo scheletro di un edificio, sequestrato al clan Foria, è in totale stato di abbandono. Confiscato a giugno del 2000 e assegnato al Comune, vede il progetto di realizzazione di un centro giovanile già finanziato con 3 milioni e 364 mila euro del Pon (programma operativo nazionale) sicurezza bloccato per un’ipoteca da 10 mila euro. A Villaricca, un appartamento confiscato tre anni fa e destinato a una casa accoglienza per disabili, anche questa finanziata con il Pon sicurezza, è stata stoppata da due azioni di pignoramento, una da 41 mila euro e l’altra da appena 1360 euro perché l’Enel intende riscuotere 20 anni di bollette non pagate. In Campania una recente ricerca del Consorzio Sole conferma: non più del 20 per cento dei beni acquisiti dallo Stato riescono ad essere rigenerati con finalità sociali. E quella dei gravami finanziari, ha spiegato Lucia Rea, responsabile del Consorzio, sembra essere una vera e propria strategia: i camorristi che sanno di essere sotto inchiesta accendono mutui sui loro beni a rischio sequestro, incassano soldi liquidi più facili da riciclare e rendono molto difficile la loro assegnazione definitiva.
Case occupate e case inesistenti
Ci sono poi le decine di immobili già assegnati ai Comuni ma che restano occupati dai familiari dei boss che nessuno si azzarda a sfrattare. A Castellammare di Stabia, resta tranquillamente a casa sua la moglie del capo della cosca D’Alessandro perché l’appartamento è confiscato solo per metà e peraltro è abusivo. In Calabria è stata persino aperta un’inchiesta con oltre 350 indagati per far luce sulle centinaia di immobili, alcuni confiscati da più di 15 anni, che continuavano a rimanere nelle mani dei familiari dei boss, come un intero palazzo sottratto a Reggio Calabria nel ‘97 a Pasquale Condello ma nel quale risiedevano tutti i suoi parenti. Se non possono fare altro, poi, i Casalesi passano ai danneggiamenti di quelli che un tempo erano i bunker dotati di ogni comfort che ospitavano le latitanze dorate dei loro capi: così la villa di Walter Schiavone a Casal di Principe o i terreni di Lubrano a Pignataro Maggiore vandalizzati dagli stessi uomini del clan per renderli inutilizzabili, addirittura con la compiacenza del sindaco, il pidiellino Giorgio Magliocca, avvocato, arrestato a marzo dell’anno scorso proprio con l’accusa di aver consentito al clan Lubrano di continuare ad utilizzare beni confiscati assegnati in gestione al Comune. A Bologna Villa “la Celestina”, tre piani in una zona di prestigio, sta ormai cadendo a pezzi, la via in cui sorge, ora via Boccaccio, ha cambiato nome ma la cosa non è mai stata comunicata al catasto. A rendere impossibile l’utilizzazione di un bene c’è una miriade di piccole quanto insormontabili difficoltà tecniche o burocratiche. Basta spulciare l’elenco dei beni assegnati al Comune di Palermo: un palazzo confiscato all’ex sindaco Vito Cancimino per metà occupato da inquilini e per l’altra metà da ristrutturare, un terreno da 1700 metri quadri a Ciaculli, il regno dei Greco, dove continuano a pascolare le pecore perché “senza confini”, un altro confiscato ad uno dei killer di via d’Amelio, Gaetano Scotto, ufficialmente “inaccessibile”.
Le aziende decotte
C’è poi un immenso patrimonio capace di dare occupazione a migliaia di persone che si perde giorno dopo giorno. È l’economia sommersa delle aziende delle mafie che, sequestrate, confiscate e affidate ad amministratori giudiziari non reggono l’impatto con il mercato e si avviano a un mesto fallimento. L’ultimo caso è quello del gruppo catanese Riela trasporti. Quella che tredici anni fa era la quattordicesima azienda più ricca della Sicilia, 30 milioni di fatturato, 250 dipendenti, ha avviato le procedure di liquidazione «perché non riesce a stare sul mercato», si legge nella determinazione adottata dall’Agenzia per i beni confiscati. I titolari ai quali era stata sottratta hanno fondato un nuovo consorzio che ha tolto i clienti alla Riela riuscendo persino a diventare il suo principale creditore per sei milioni di euro. D’altra parte l’azienda in amministrazione giudiziaria, rispettando tutti i parametri di legalità , era costretta a praticare prezzi superiori fino al 30 per cento rispetto ai concorrenti. E la Calcestruzzi Ericina, fiorentissima azienda che, fino a quando apparteneva al boss trapanese Vincenzo Virga, operava quasi in regime di monopolio, appena passata in amministrazione giudiziaria, ha visto prosciugarsi le commesse e persino parte del personale ha “preferito” rimanere fuori. Alla fine, prossima al fallimento, ha rialzato la testa grazie alla caparbietà di un gruppo di lavoratori riunitisi in cooperativa che, con il sostegno di Libera di Don Ciotti e delle istituzioni locali, è riuscito a mantenerla in vita. A Palermo l’avviatissimo Hotel San Paolo Palace, già dei Graviano, registra perdite su perdite. Ci sono poi decine di casi in cui le attività sono ingestibili perché il provvedimento della magistratura riguarda il patrimonio societario ma non le azioni. Accade così che in provincia di Novara il servizio di ristorazione del castello di Miasino, sottratto al boss camorrista Galasso, sia ancora in mano alla moglie. Ma perché un’azienda florida quando è nelle mani della mafia poi fallisce quando viene confiscata e passa allo Stato? Spiega il prefetto Caruso: «Già in fase di sequestro le banche revocano i fidi, i clienti ritirano le commesse e la regolare fatturazione porta ad un inevitabile innalzamento dei costi di gestione. In più molti amministratori giudiziari sono incompetenti. Come faccio a mettere a reddito aziende così?». E proprio dal primo congresso nazionale degli amministratori giudiziari arriva la conferma: su dieci aziende confiscate alla criminalità , nove muoiono. «Si tratta di aziende che fino a quel momento si sono mosse fuori dai confini della legalità – spiega il presidente Domenico Posca – e risulta quasi impossibile mantenerle sul mercato con l’inevitabile aumento del conto economico al quale si aggiunge quasi sempre un irrigidimento delle banche e dei fornitori. La scommessa dello Stato deve essere quella di salvare centinaia di posti di lavoro, know how e validi impianti produttivi. È assolutamente necessario intervenire favorendo il mantenimento delle linee di credito e prevedendo un regime fiscale e previdenziale agevolato».
Vendere i beni inutilizzabili
Ecco perché anche il prefetto Caruso invoca la possibilità di vendere i beni confiscati anche ai privati. «Ovviamente con tutte le garanzie del caso sull’acquirente. Il nostro sistema è così avanzato che, anche se qualcosa dovesse sfuggire, saremmo in grado di riconfiscarli. D’altra parte ditemi cosa dovrei fare di particelle di terreno indivisibili o di due stanze divise fra cinque eredi o di edifici con un’errata indicazione di dati catastali?». Al Parlamento, Caruso chiede benzina per far girare una macchina da Formula 1. «La sfida immensa – dice – è quella di mettere in grado l’Agenzia di lavorare bene. Ma come si fa a gestire beni che raggiungono il valore di una finanziaria con un organico carente e inadeguato?». Trenta persone in tutto per la sede principale di Reggio Calabria (che Caruso chiede di cambiare per le difficoltà di collegamento) e gli uffici di Roma, Palermo, Milano e quelle di prossima apertura di Napoli e Bari. Un budget da 4 milioni di euro che comporterà un taglio persino alle retribuzioni del personale che, accettando di lavorare all’Agenzia, guadagna meno rispetto ai colleghi delle amministrazioni di appartenenza. E ora, con l’entrata in vigore dei regolamenti attuativi, un ulteriore aggravio di lavoro. Perché all’Agenzia toccherà fare da supporto alla magistratura anche nella fase di sequestro e non solo più della confisca. «L’unica strada – è la proposta di Caruso – è trasformare l’Agenzia in un ente pubblico economico».
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