Intellighenzia Padana

by Editore | 23 Marzo 2012 7:42

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Varese, Nord. La faccia di Paolo Mathlouthi, trentenne, studioso di storia moderna, è scavata nei tratti di una memoria remota. È berbero nel sangue e la sua genealogia attraversa la sabbiosa Kabilia e i terragni Abruzzi. È il coordinatore del focus di Terra Insubre, la rivista di “cultura del territorio e identità “. Una sorta di MicroMega dei leghisti primigeni, per intendersi. È il think tank dei leghisti dissidenti e ogni numero è un fascicolo di approfondimento culturale, antropologia e relazioni archeologiche ma anche interviste a Nanni Svampa, uno dei leggendari Gufi. Dunque la rivincita dei cantimbanchi, tema caro agli studi di Piero Camporesi, che induce a chiedersi: «Perché la provincia di Varese ci ha dato Dario Fo, Nanni Svampa, Cochi e Renato, Massimo Boldi, Francesco Salvi, Enzo Iacchetti, I Fichi d’India… e la provincia di Como solo Memo Remigi, che non fa ridere?».
La storia di questo circolo comincia nel 1996 tra i tavoli dell’Aldebaran, un pub che è stato night club per poi approdare al kebab. In quegli anni gli associati della rivista – che ha come simbolo un cinghiale e il triskele (gemmazione della Trinacria di Sicilia: quando si dice il cosmopolitismo valligiano!) – erano quasi tutti studenti del liceo Cairoli, e sebbene abbiano fatto militanza con lo spadone di Giussano, non hanno assecondato i diktat di Umberto Bossi contro il primo dei numi tutelari del leghismo, il politologo Gianfranco Miglio, considerato ancora oggi il loro padre putativo.
Terra Insubre (l’Insubria è la denominazione del territorio di Varese) è anche una realtà  di numeri, ed è un grosso problema per la Lega di Umberto Bossi. C’è la guerra del “Cerchio magico”, la cerchia dei bossiani, contro i “maroniani”; una guerra che si consuma in questa città , che sta alla Padania come Lourdes alla cristianità . E gli aderenti di Terra Insubre sono appunto maroniani, difesi (da sinistra) dall’ex ministro dell’Interno, incoraggiati (da destra) da Flavio Tosi, il sindaco di Verona. Sono stati minacciati di espulsione da Bossi in persona. Durante il direttivo federale ha liquidato tutto questo “culturame” dichiarando l’incompatibilità  tra la tessera del partito e l’iscrizione all’associazione, dimenticando un dettaglio: «L’ottanta per cento dei leghisti di Varese», spiega il leader Andrea Mascetti, «è iscritto a Terra Insubre».
Mascetti è la bestia nera di Bossi. Da lui derivano il gruppo di Terra Orobica, a Bergamo, quello di Terra Taurina, in Piemonte, e a Modena quello di Terra Frignate. E il capo padano non sa che farsene di un’Insubria acculturata, spina nel fianco del leghismo impelagato nelle vicende dei traffici del Pirellone.
Questa rivista non è il borbottio di Radio Padania. Non ci sono le “diableries gothiques” dei raduni del Carroccio e si studia il genius loci di mille luoghi e la “sepoltura della capra nella chiesa di Santa Maria della Purificazione”. Ecco, sarà  pure giusta lettura del Liber Notitiae Sanctorum Mediolani ma è risibile cosa rispetto alle vestigia della memoria “imperialistica”, quella contro cui muove guerra l’Insubria coi suoi agitatori sempre attivi – come i seminari organizzati sulle cime del San Gottardo, nelle caserme dell’esercito elvetico, “senza italiani tra i piedi” – per svegliare l’identità . 
È un capitolo ritrovato del “romanticismo politico”, questa della reazionaria Terra Insubre. Mettere Lega e cultura non è un ossimoro ma un corto-circuito oltre il luogo comune. Leggono con ferma devozione Contro-passato prossimo, il capolavoro di Guido Morselli, ma presi dal rovinio del “particulare” rinunciano al paradosso di una Grande Guerra vinta dagli austriaci per starsene sulla barca, in mezzo al lago, come Ugo Tognazzi ne La Stanza del Vescovo (il film tratto dal romanzo di Piero Chiara): bagnano il dito in bocca per sentire il vento di Breva e respirare l’aroma del tabacco di Brissago.
Non c’è un’invenzione capricciosa dell’ideologia nella “lode della grandezza delle piccole comunità ” di Gilberto Oneto (spesso ospite de L’Infedele di Gad Lerner), piuttosto l’autonomismo radicale che, orbo di risultati, è un sentimento senza politica. Separati da ogni appartenenza, si trincerano nel territorio. In attesa del medioevo, mangiano negli slow food di Carlo Petrini e trovano – così spiega Mathlouthi – “quella che Claudio Magris chiama ‘la vertigine del mondo’ e recidere così i legami viscerali con Itaca e riscoprirne l’autenticità . Il nostro progetto non nasconde, come vorrebbero i nostri detrattori, versioni eufemistiche del razzismo. Ed è semmai l’aspirazione alla ‘separatezza’. Come spiegò Eugène Rambert: sembrare diversi per rimanere se stessi”.
Impolitici, ecco. E tra i libri disseminati nei loro convegni, spicca di baffo e ceffo il barone Roman von Ungern, il Khan dell’Orda d’Asia disegnato da Hugo Pratt in Corte sconta detta Arcana, da loro amato e riprodotto in poster perché, insomma, dalle pozze dei miti da cui attinge Terra Insubre, le verità  che aggallano sono quelle ostili al mondo di oggi. L’immaginario è ben più che ribelle, è qualcosa di più del lessico di “Roma ladrona”. Stanno nel territorio per restarsene fuori da questo mondo. 
Si sentono come gli irriducibili Galli questi tipi di Terra Insubre. I loro banchetti, e ne organizzano di diversi, danno all’ospite l’impressione di vivere dentro un albo di Asterix, tante sono le piccole patrie: bretoni, alsaziani, romeni, scozzesi, irlandesi e, manco a dirlo, hanno fatto festa nel Saint Patrick’s Day, “il giorno del trifoglio e della libertà “. Con loro, “I lupi delle Alpi” di Andrea Cavalleri. Una metafora d’obbligo, questa, in ragione di una fedeltà . Quella per il ticinese Hermann Hesse. La lectio sull’autore del Lupo della steppa, all’ultimo Festival Insubria, la tenne Quirino Principe. E lo fece con garbo mefistofelico. A dispetto di Regina Bucher, responsabile della fondazione Hesse, turbata dall’araldica grifagna e rapace d’Insubria.
Sono ex liceali incendiati dal Brenta. E’ il vento che scuote la loro stessa casa. Oggi sono professionisti o parlamentari, o insegnano all’università , come Sergio Rovagnati, docente di Antropologia presso la Cattolica di Milano, che nelle mattane dell’Aldebaran esibiva al collo un “torque”, un vistoso e pacchiano gioiello celtico che si era fatto forgiare «in ossequio alle origini ancestrali».
Si sentono, per dirla con Mathlouthi, «stranieri tra gente sconosciuta». Scoprono così, sulle orme di Chiara, che il dialetto parlato a Poschiavo, nel Canton Grigioni, è lo stesso usato dagli avventori del Caffè Clerici di Luino o degli abitanti di Porlezza. La lingua, per loro, è quel «carattere etnico determinante» descritto da Pier Paolo Pasolini. Ed è carnale, come i pizzoccheri di Teglio.
E poi, certo, le identità . Quando Gianfranco Miglio, nell’invettiva anti-meridionalista, rivendicò i quarti di nobiltà  con nonna sua che contava le galline in tedesco ein, zwei, drei, ebbe la pronta risposta di uno storico catanese, Santi Correnti: «Anche mia nonna, illustre collega, non contava in italiano. Ma in siciliano, uno, due e tri, e numerava i feudi, non certo le galline». Identità , dunque. E autonomismo radicale. Perfino fino a Como. Sia pur con Memo Remigi.

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