by Editore | 18 Marzo 2012 15:14
TRIVANDUM – Si erano fermati a scattare qualche foto a un gruppo di ragazze lungo il fiume, sono finiti nelle mani dei sanguinari guerriglieri maoisti che da quasi cinquant’anni infestano l’India orientale. C.C. e P.B., due turisti italiani in viaggio nella terra dei maharaja, sono precipitati nei guai ieri pomeriggio attraversando un villaggio tribale dell’Orissa, nel distretto di Kandhamal. Zona da disco rosso, secondo il sito “Viaggiare sicuri” della Farnesina. Il rapimento è stato rivendicato con una telefonata al direttore della televisione indiana Ndtv, ma a notte fonda non era stato ancora confermato ufficialmente dalla Farnesina che sta cercando riscontri.
Secondo l’unica fonte disponibile, quella cioè della tv indiana, i ribelli non hanno chiesto denaro ma avanzano rivendicazioni politiche e chiedono il rilascio dei loro commilitoni prigionieri, anche se è ancora troppo presto per azzardare un’ipotesi di trattativa.
Quel che è certo è che l’afosa estate indiana sta diventando un terreno minato per diplomazia e servizi italiani: insieme alla delicata vicenda dei due marò in prigione nel Kerala dovranno ora aprire un nuovo spinosissimo capitolo. I ventimila guerriglieri dell’Orissa sono una minaccia costante per la sicurezza interna dell’India, e da anni tengono sotto scacco i governi di una serie di Stati attraversati dalla loro protesta che si estende dall’Andhra Pradesh al Chattisgarh e al West Bengala, arrivando persino in Nepal. Avere in mano due ostaggi italiani, in questo momento di crisi nei rapporti tra India e Italia, può pesare più del doppio sulla bilancia di Brenno. Ed è difficile ipotizzare che non lo sappiano.
Specializzati non solo in rapimenti ma anche in attentati e estorsioni, nelle loro operazioni “militari” hanno lasciato sul terreno scie di sangue: nel 2009, l’anno nero in cui sono stati più cruenti, hanno lanciato oltre mille attacchi contro obiettivi governativi, uccidendo almeno seicento persone. Un tasso di crudeltà che ha ridotto sempre più il loro consenso ma non la loro tenuta ideologica sulla povera gente allo stremo nei villaggi e nelle campagne. Esistono dal 1967, quando il mondo li conobbe come i “naxaliti” dell’insurrezione a Naxalbari, nel Bengala Occidentale.
La scrittrice pacifista Arundhati Roy si è offerta di mediare un negoziato di pace, ma non è un tema all’ordine del giorno. Secondo il governo, i ribelli maoisti continuano a essere attivi in un terzo dei 600 distretti indiani, soprattutto nelle campagne e tra le comunità tribali delle foreste. E gli analisti ritengono che siano i finanziamenti e le armi di Pechino a sostenere la loro lotta. Non è un caso che il premier Manmohan Singh li abbia dichiarati la minaccia interna più grave per la sicurezza indiana.
E’ in questo ginepraio esotico che ora si dovrà riuscire a trovare la via d’uscita. Partendo, oltretutto, da un dato nuovo: è la prima volta che i maoisti rapiscono cittadini stranieri, e potrebbe non essere un caso che si tratti di italiani. Secondo la tv indiana con cui i rapitori hanno subito aperto un contatto, le loro richieste sono sostanzialmente politiche: vogliono la liberazione di tutti i loro compagni d’arme finiti nelle celle di Stato tra un assalto e un attentato; ma chiedono soprattutto che l’India tiri il freno sull’offensiva militare Green Hunt che ha scatenato contro di loro, cercando una volta per tutte di eliminare alla radice il più ostico dei nemici interni, divenuto un male endemico.
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