by Editore | 13 Marzo 2012 9:18
Secondo le ricostruzioni delle agenzie stampa, sarebbe entrato in tre diverse case nei villaggi di Alkozai e Najeeban, uccidendo 16 persone, tra cui 9 bambini, ferendone almeno altre 5, per poi bruciare alcuni corpi delle persone uccise.
L’identità dell’omicida, che dopo la strage pare essersi consegnato alle autorità militari americane, non è stata resa nota, ma secondo fonti citate dalla Ap l’uomo sarebbe un 38enne proveniente da una base dello stato di Washington, alla sua prima missione in Afghanistan e reduce da tre missioni in Iraq. Tra le ipotesi accreditate come causa del gesto, il fatto che fosse ubriaco, psicologicamente instabile o vittima di un «crollo psichico». Come dopo il caso del Corano bruciato, i vertici della coalizione Isaf-Nato si sono scusati con la popolazione afghana. Lo stesso ha fatto Barack Obama, che in una telefonata al presidente Hamid Karzai ha promesso un’inchiesta rigorosa, ribadendo l’estraneità del corpo militare Usa a un gesto così incomprensibile, mentre il segretario alla difesa Usa, Leon Panetta, ha voluto assicurare che «giustizia sarà fatta». Da parte sua il presidente afghano parla di un atto intenzionale e «imperdonabile», e per una volta sembra aver trovato le parole giuste. Al di là della responsabilità individuale (anche se un testimone parla di più soldati e di alcuni elicotteri sul luogo della strage), l’episodio di Kandahar mostra la contraddizione principale della missione internazionale in Afghanistan: da una parte il mandato ufficiale recita che il compito delle truppe è proteggere la popolazione locale, dall’altra i civili sostengono sempre più frequentemente di temere i soldati che dovrebbero proteggerli. Sta qui, nella distanza ormai irriducibile tra le truppe straniere e la popolazione civile, nella sfiducia e nel risentimento crescenti verso le forze di occupazione, la prova del fallimento della missione internazionale, a 10 anni dal suo inizio. E sta anche nei dati sulle vittime civili diffusi dalla missione Onu in Afghanistan: nel 2011 le vittime civili sono state 3021, con un aumento dell’8% rispetto al 2010, e del 25% rispetto al 2009. Se compito delle truppe Isaf-Nato è proteggere la popolazione, i dati dell’Onu parlano di una missione tragicamente fallimentare. Le cancellerie occidentali lo hanno capito. Così come hanno capito che non c’è alternativa al negoziato con i Taleban, fino a due anni fa paria della comunità internazionale e oggi interlocutori con cui è indispensabile trattate, come dimostra l’avallo americano all’apertura di un ufficio politico in Qatar e – pare – al prossimo trasferimento di 5 pezzi grossi della leadership taleban dalla prigione di Guantanamo a Doha.
Per questo, gli occidentali affrettano il ritiro, anche se la cancelliera Angela Merkel, arrivata a sorpresa in Afghanistan, ieri ha detto di non poter garantire il ritiro delle truppe entro il 2013/2014, come previsto. La situazione infatti rimane esplosiva, sia sul piano politico che su quelle militare. Sul terreno, i Taleban con un comunicato ufficiale promettono vendetta per «i barbarici crimini dei selvaggi» americani, e con una mossa inaspettata chiedono alle organizzazioni internazionali per i diritti dell’uomo che impediscano in futuro episodi simili e che portino i responsabili davanti a una corte di giustizia. Sul piano politico, diventa più difficile per Obama ottenere in breve tempo la firma di Karzai all’accordo di partenariato di lungo periodo, che entrambi speravano di riuscire a presentare a maggio, al vertice della Nato di Chicago. Venerdì scorso c’era stato un passo avanti, quando gli Usa hanno concesso il trasferimento alle autorità di Kabul della responsabilità sui detenuti nelle carceri americane in Afghanistan. Oggi quel passo in avanti viene ridimensionato dalla furia omicida del sergente Usa, che permette a Karzai di tornare su uno dei punti-chiave del negoziato con Washington: «Basta con i raid notturni», chiede il presidente afghano come condizione per la firma del trattato, «Avanti con i raid, strumento indispensabile della nostra strategia», la risposta Usa. (Lettera 22)
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