Impietosa autoanalisi a fumetti di un pigro e avaro onanista
La sua ultima opera, Al Capolinea (Coconino Press, pp. 132, euro 17,50) tratta il tema autobiografico della pornodipendenza, in una sorta di collegamento ideale al recente Io le pago del suo caro amico e collega Chester Brown, di cui ci siamo occupati su queste pagine il 3 gennaio 2012, che trattava invece la vicenda – sempre in chiave autobiografica – di un frequentatore di prostitute.
Nel graphic novel, costruito attraverso lunghe sequenze solitarie intercalate da incontri con gli amici, la narrazione scorre in maniera lineare, disegno preciso e dialoghi perfetti, dove la dipendenza sessuale di Joe Matt è il tema centrale ma non unico del racconto. Man mano emerge un rapporto irrisolto con la madre, una ossessiva nostalgia dell’infanzia, l’incapacità di costruire rapporti con donne reali, una notevole avarizia. Tutto questo non viene nascosto ai lettori ma raccontato con onestà a volte eccessiva, come è nello stile delle autofiction letterarie contemporanee, trovando forse alcuni punti di contatto con Shame, il film sulla dipendenza sessuale che parla di uno yuppie di New York. Se nel film di Steve McQueen il protagonista non riesce a smettere di rimorchiare ragazze in giro per New York e consumare rapporti sessuali in eleganti appartamenti, stanze d’albergo o nei vicoli di Manhattan, in Al Capolinea di Joe Matt è la dipendenza dalla pornografia con la conseguente ossessione per la masturbazione a dominare la storia. Qui, con il suo stile sobrio e l’ostentazione dettagliata, seppure priva di sguardo morboso, di un eccesso nella pratica masturbatoria che toglie la forza di lavorare e di incontrare donne vere, il protagonista ingenera una sorta di sguardo compassionevole. Sul letto a una piazza, nella sua camera in affitto senza bagno, Joe attraverso un lungo e faticoso lavoro realizza in modo compulsivo la sua opera, che in questo caso consiste nel condensare in numerose antologie vhs, i momenti per lui più eccitanti di ogni videocassetta porno affittata: «Mi sa che mi rimetto a duplicare video. Devo ancora finire l’ultima scena di Anal Clinic. Ma prima meglio verificare se c’è ancora abbastanza nastro nella cassetta. Sì, sembra che avanzino ancora undici o dodici minuti».
In precedenza, Joe Matt nella sua opera Poor bastard, aveva già dato prova di una narrazione autobiografica schietta, senza riluttanze e a tratti ironica, ma non era mai giunto a confessioni così scabrose. Ancora una volta, come nel caso di Io le pago si può parlare di autofiction, formula narrativa in cui sempre più spesso viene estremizzato un evento o una condizione psichica per superare, attraverso la finzione creativa, quell’assenza di trauma che è la condizione dei giovani autori contemporanei (come ha acutamente rilevato Daniele Giglioli). In questo caso si produce un ribaltamento del ruolo dell’eroe, ancora più significativo in una forma narrativa come il graphic novel, che derivando dai comics, opera una sorta di demolizione degli statuti fondativi del medium nella sua versione popolare.
Se nel superuomo di massa, così come analizzato da numerosi critici, tra cui Umberto Eco, è possibile intravedere la figura messianica del salvatore dai mali del mondo, una giustizia e un bene per una volta trionfante in una sorta di catarsi, mostrare un personaggio pieno di difetti, meschino, pigro, avaro e onanista, produce una sorta di identificazione con la parte peggiore di se stessi, con i propri limiti, le proprie debolezze – uno dei motivi per cui i reality televisivi e la tv spazzatura viene amata da consistenti segmenti di pubblico. La rielaborazione senza ritegno del proprio vissuto operata da Joe Matt è comunque il frutto di una grande padronanza della grammatica narrativa del medium, da maestro di graphic novel, le cui storie alludono a Charles Bukowski e a Robert Crumb, suo dichiarato maestro. Entrambi, non a caso, cantori di una condizione sociale ed esistenziale folle e disperata. Un bel disegno, un bel racconto, crudo, a tratti duro, impietoso, senza segreti.
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