IL VIETNAM CHE RITORNA

by Editore | 12 Marzo 2012 10:28

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Dopo quasi undici anni di una occupazione e di una guerriglia inconcludente quanto crudele, di inutili incrementi di truppe e di ritiri annunciati, di armi intelligenti, di «danni collaterali», di agguati, deve semmai stupire se eventi come questo non siano stati molto più frequenti. Alla fine, il solo vincitore certo è «the horror».

Quanto è accaduto nei villaggi di Balandi e Alkozi, nel cuore della terra dei Taliban, non è la eccezione, è la normalità  della «nuova guerra» combattuta contro nemici senza uniforme, senza reparti, senza linee di demarcazione territoriale, intrise di reciproco disprezzo razziale e religioso in una continua e reciproca «jihad». Quelle guerre che sembrano tanto intelligenti, chirurgiche, bene intenzionate, addirittura «giuste» quando sono teorizzate da chi non le combatterà , sempre, inevitabilmente, degenerano nelle atrocità  che vedemmo a My Lai in Vietnam,a Sarajevo, nel Kossovo, in Palestina, in Libano, in Iraq, in Ruanda.

Puoi avere l’esercito meglio addestrato, armato e motivato del mondo, come i generali americani ripetono, ed è certamente vero, e credere di avere le più nobili motivazioni e intenzioni. La tua causa è giusta, la vendetta per un altro massacro di innocenti, in quell’11 settembre.

Puoi dotare le basi avanzate di televisione satellitare, Internet, friggitorie di fast food, spacci, ospedali da campo attrezzatissimi, come avviene per alleviare la quotidianità  del servizio. Ma alla fine del tunnel c’è sempre e soltanto un uomo aggrappato al suo unico vero amico, il proprio fucile, come gridava alle reclute il sergente istruttore di «Full Metal Jacket», nella solitudine un oceano di alieni che si somigliano tutti, amici e nemici, maschi e femmine, vecchie bambini, nel qualei più fragili annegano.

Le eleganti premesse geopolitiche (ricordate il «Nuovo secolo americano» profetizzato da quei Neocon che intossicarono la presidenza del debole Bush?) si corrompono nella scoperta che niente è come te l’avevano descritto.

L’edificio psicologico costruito nei soldati dall’addestramentoe dall’indottrinamento, puntellato dalla retorica del «siamo tutti con le nostre truppe», si sbriciola al primo contatto con la realtà .

Resta soltanto quella domanda che proprio George W Bush pose a se stesso più volte: «Ma perchè ci odiano tanto?» alla quale il soldato non ha spesso altra risposta che odiare a propria volta. E quindi urinare sui cadaveri. Bruciare libri sacri.

Sparare sugli inermi. Fare agli altri quello che hanno fatto o che vorrebbero fare a te.

Si piange su vecchi, donne, bambini, civili di ogni età  caduti, come se da decenni essi non fossero affatto il «danno collaterale», «l’errore» del quale scusarsi, ma l’obbiettivo principale degli attacchi. E tutti lo sanno.

Non esisteva nessuna ragione tattica per radere al suolo Coventry o Dresda, per incenerire Hiroshima e Nagasaki, città  di retrovia, per demolire casa per casa una Berlino già  morta nell’aprile del 1945. La motivazione strategica, da quando l’aviazione è divenuta un’arma fondamentale, era far strage di civili per spezzare il morale del combattenti.

Perché dunque il soldato americano che è entrato imbracciando il suo «unico amico», il fucile automatico, nelle case del Kandahar e ha «innaffiato» di proiettili chiunque fosse a tiro, dovrebbe provare più inibizioni dei generali che ordinano i bombardamenti a tappeto e le salve di missili dagli elicotteri, dai droni, dagli aerei? Perché mai il sottotenente William Calley della 23esima divisione di fanteria, avrebbe dovuto risparmiare la vita dei 500 abitanti di My Lay, nel 1969, che lui personalmente e gli uomini del suo plotone abbatterono per «bonificare» quella zona dai Vietcong? I suoi superiori non avrebbero esitato un istante a ordinare una pioggia di napalm sulle stesse capanne, se avessero – come lui – sospettato gli abitanti di connivenzae simpatia con il nemico. Nelle guerre fra razze, religioni, culture, tutti i nemici sono uguali e tutti disumanizzati nel linguaggio, i giapponesi sono tutti «giap», i vietnamiti sono tutti «gooks», «charlie», «slope», gli arabi, anche quando non sono affatto arabi come gli afgani, diventato tutti «raghead», teste di stracci o «camel fucker», amanti di cammelli.

Nelle sue memorie dal Vietnam, Gene Dark, recluta spedita a 19 anni a combattere oltre oceano, ha raccontato in «Atrocità  di Guerra» il risucchio irresistibile nel gorgo dell’orrore e la morte dello spirito, nella confusione della paura. Anche il bambino che ti vende il chewing gum per strada forse fa la piccola vedetta per un terrorista, la donna che sembra sorriderti sotto il burqa nasconde esplosivi, il vecchio afgano inturbantato che allunga la mano per un dollaro forse sa esattamente dove sia collocata la mina. Il cosiddetto «soldato» regolare, è una quinta colonna.

«Il tuo universo si restringe e si rapprende nel gruppetto immediato dei tuoi camerati, e tutto quello che sta oltre è il male da uccidere». Il ritiro totale delle forze Nato e Americane avverrà  entro il 2014, è stato ormai deciso. La democrazia non c’è, resta l’orrore. Ci sono – lo scrive la Cnn – ancora 400 donne afgane in carcere per «crimini sessuali» e i Taliban si preparano a riprendere il mano il Paese. Niente di nuovo sul Fronte Orientale.

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