IL ROMANZO DELLA RESISTENZA SCRITTO DA UNA RAGAZZA DI OGGI
È una bambina, da una grotta, a raccontarci cos’è che ci manca. Cos’è che non abbiamo più e non sappiamo ritrovare qui e ora, in questi giorni sfusi pieni solo di rabbia e di impazienza, di calcoli brevi e di sfinimenti vani. È il personaggio di un romanzo – che come accade è la finzione la più precisa a raccontare la realtà – a dirci piano all’orecchio da dove ripartire. A dirci dove ritrovare le parole e le emozioni, le ragioni collettive che tengono dentro le storie di tutti, e un cammino da fare insieme, con fatica e con dolore ma insieme, verso un posto che sia un più bel posto per tutti giacché tutti l’hanno patito e guadagnato insieme. Un orizzonte comune, la storia grande che partorisce nel sangue e nel sollievo le vicende di ciascuno. È Ida Maria, una ragazzina sarda sbarcata in continente giusto in tempo per scoprire cosa sia l’amore mentre arriva la guerra, una piccola staffetta partigiana che si nasconde per giorni sottoterra, nelle cave di Roma ad aspettare che finiscano gli spari. E che nei giorni, dalla grotta, per domare la paura ricorda e racconta: la vita sua, quella delle persone intorno, la storia grande e quella piccola, la forza delle cose, l’immensa energia che scaturisce da ogni lutto se solo c’è un posto dove andare, dopo, un luogo dove correre che sia così bello da giustificare la corsa.
Paola Soriga, che ha scritto la storia di Ida e l’ha intitolata Dove finisce Roma (Einaudi Stile libero), ha poco più di trent’anni. Non è la prima, della sua generazione, a cercare in un tempo che non ha conosciuto un presente dotato di senso, che abbia la voce e i gesti – la purezza, la durezza – adatti a descrivere le ragioni e le passioni che muovono i destini comuni. La Resistenza, la guerra: gli anni in cui tutto rovinava e insieme cominciava daccapo, si combatteva e si moriva coi torti e le ragioni confusi e nitidi insieme. È proprio come se i nipoti, oggi, cercassero il bandolo di un filo da riannodare nella memoria e nel racconto dei loro nonni, come se ci fosse una segreta risonanza – segreta, ormai chiara – fra la generazione dei più vecchi e quella dei più giovani. Dei nonni e non dei padri, ché gli anni di mezzo sono stati un guasto, hanno sciupato e stinto la tela, corrotto il telaio. Non è la prima, Paola Soriga, a provarci ma è la prima a riuscirci con una precisione definitiva, che commuove per la semplicità e consola per la sapienza, muove al pensiero e chissà forse all’azione, lascia – chiusa l’ultima pagina – l’eco di un desiderio di fare, di provarci di nuovo, proprio noi proprio ora, e allora andiamo, forza, che cosa stiamo aspettando, ricominciamo.
È un romanzo pieno di donne, anche. Dedicato “alle donne della mia famiglia”, aperto dai versi di Szymborska («chi sapeva di che si trattava deve far posto a quelli che ne sanno poco, e meno di poco, e infine assolutamente nulla») e di Antonella Anedda, «l’amore è un’occupazione solitaria». Si nutre di una conoscenza profonda del tempo di cui parla, di letture e di racconti inseguiti e raccolti, le donne del libro si chiamano Renata e Agnese, sebbene questa non vada a morire, compare al bar Giolitti il sorriso di Giaime Pintor, si sentono senza che pesino mesi e forse anni a rincorrere una storia smarrita e l’amore per quella storia, sempre. Si sente senza che pesi anche un lavoro lungo, di cesello e di ascolto del suono della lingua alla ricerca di una semplicità di stile che riporta alla memoria Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino, anche Pin è un bambino come Ida, anche quei dialoghi quelle descrizioni sono puri in un lento e complicato modo, il lavoro che serve per ritrovare la purezza. La voce che narra, qui, è potente e sottile. Il racconto passa come acqua dalla terza persona alla prima, è Ida che vede se stessa poi è Ida che parla, un flusso di pensiero che porta il lettore nella storia a camminarci dentro, lascia defluire i personaggi e le vicende secondo il ritmo e il senso del ricordo. Un ricordo prima infantile, poi di adolescente, infine di donna. Un ricordo che cresce e che cambia.
Ida quando è partita dalla Sardegna, era il 1938, aveva «i capelli neri e diritti e la pelle di un’oliva, i suoi giorni erano stati tutti dentro il paese». La nonna, le sorelle, la stalla, le galline. I genitori la mandano in continente con Agnese, la sorella maggiore che si è sposata e vive a Roma, che tanto a Roma non c’è pericolo, a Roma non ci buttano mica le bombe, a Roma c’è il Colosseo. E dove mangiano in due mangiano in tre, che problema c’è.
Il problema certo che c’è, per una bambina di 11 anni che parte con la nave e da quel momento esatto è sola, che va a vivere in un quartiere di Roma dove tutte le strade si chiamano coi nomi delle piante e dei fiori proprio mentre la guerra arriva esattamente lì, in quelle piazze, in quelle strade, in quella casa dove la sorella triste vive col marito Francesco che «ogni giorno un po’ cambiava davanti a questa sposa che non gli faceva i figli, che non era madre come diceva la natura e dio e il nostro Duce, Agnese, il nostro Duce». Ida la bambina sarda con la pelle di oliva impara a camminare fra via dei Pioppi e piazza dei Mirti, conosce Don Pietro e Rita al catechismo, poi Antonio coi ricci belli, poi Micol nella sua casa elegante e le macerie, la marrana, lo spavento dei bombardamenti e poi l’amore, occupazione solitaria. Impara a disubbidire, insegue le ragioni che le sembrano ragioni, usa Maria come nome di battaglia, ora è una partigiana, scappa Maria scappa che ti cercano, vai nella grotta, nasconditi. Fuori i 335 morti nelle fosse, che quel giorno «avevano fatto esplodere una bomba per tappare l’entrata e ci avevano buttato sopra l’immondizia per coprire l’odore», «si vedevano i corvi, si sentivano i corvi, le grida dei corvi, e la terra era umida e soffice e c’erano le tuberose, tuberose che coprivano la terra e il loro profumo fortissimo, e Ida non ce l’aveva fatta ad andare avanti le era venuto da vomitare». Annina che da quando aveva visto morire la mamma della sua compagna di banco non parlava più. Don Pietro che le aveva detto tu sei come un’ostrica, Ida: hai una perla dentro. Betto che forse è una spia. Micol che si vedono sempre il martedì, nella casa grande e bella del ghetto dove la domestica Benedetta è una ragazzina sarda come Ida, la sua lingua che ricompare all’improvviso con un vassoio da tè fra le mani e Micol che studia e legge e dice «sono sempre gli uomini a viaggiare scrivere pensare ma Grazia Deledda, e Jane Austen e Sibilla Aleramo, Eleonora Duse?», se sono eccezioni «io voglio essere un’eccezione» e poi arriva una macchina con due uomini vestiti di nero a portarla via, Micol. E Antonio, più di tutti Antonio, il bacio di Antonio nella grotta, i sorrisi di Antonio alle riunioni clandestine e Antonio che «lo amavi perché non ce n’era un altro uguale, che ci volevi passare tutto il tempo e che sembrava che anche lui ti amava» e se ora Antonio si sposa e non sei tu, mi sposo, mi sposi?, no io mi sposo, allora a cosa serve che siano arrivati gli americani proprio stamattina con quei capelli biondi quegli occhi celesti, sono arrivati tardi, perché ci hanno messo tanto, se arrivavano ieri non era morto Faustino e ora che sono arrivati e Antonio si sposa puoi piangere tutto il pianto che non hai pianto mai. Quello per le case crollate, le amiche scomparse, la nonna che non hai visto morire, la mamma che ti ha mandata via, tutti i dolori, tutti i lutti, Francesco sotto le bombe di san Lorenzo e ieri Faustino, anche Faustino. Ora che il sole picchia forte sulla testa, solo ora che è finita sei padrona di perderti: oggi puoi, e solo per oggi. E ora che la storia è finita, solo ora Paola Soriga può uscire da Ida e dire le sue ultime venti parole, in coda. «Grazie a tutti quelli che hanno voluto raccontare la Resistenza, i cui lavori sono alla base di questo romanzo. Soprattutto grazie a chi l’ha fatta, e a chi la fa ogni giorno ancora». Ogni giorno ancora, come allora, appunto.
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