Il rock novel di Jennifer Egan
Una volta tanto, il titolo italiano rende molto meglio dell’originale, A Visit from the Goon Squad, il leitmotif del libro, costruito come un album musicale, idealmente diviso in due facciate e interrotto da un capitolo che è una sorta di proiezione in power point delle considerazioni di una dodicenne. Ma non sta in questi espedienti la novità del romanzo, bensì nella sua costruzione, nelle dislocazioni mentali imposte al lettore dalle molteplici alternanze dei personaggi nel fuoco della narrazione, nelle parentesi che si aprono a latere nel tempo accogliendo nuove figure e proiettando quelle già note sullo sfondo, nella virtuosistica differenziazione delle voci. Voci diversissime, appunto, quanto a registro, tonalità , colore, ma tutte sovrastate da una sorta di saggezza autoriale che avvolge nella sua empatia ognuno dei personaggi, per lo più sconclusionati ragazzi immersi nel mondo della musica, temporaneamente perduti ma non del tutto, perché «nulla è mai sul serio», se non il tempo che passa e a volte redime, altre volte devasta.
Nel suo romanzo alcuni personaggi parlano in prima persona: le ragazze punk Rhea e Jocelyn, l’ex chitarrista senza fortuna Scotty, l’aggressivo Jules, in carcere per stupro, e la dodicenne Alison, che fornisce la sua versione dei fatti attraverso la riproduzione di slides proiettate in power point. Inoltre, c’è un capitolo in cui la voce narrante si rivolge con il tu a Rob, ricostruendone la storia prima che anneghi. Curiosamente, invece, i protagonisti del romanzo, Sasha e Bennie, non hanno una voce propria, e di loro veniamo a sapere attraverso il racconto di un narratore in terza persona. Come è arrivata a differenziare così le voci e a decidere chi far parlare in prima persona e chi no?
Quando ho cominciato a scrivere Il tempo è bastardo non avevo ancora messo a fuoco il fatto che sarebbe stato un romanzo. Ho lavorato a quello che divenne poi il primo capitolo del libro concependolo come il racconto di una donna che va a un appuntamento, ruba un portafoglio, poi descrive il furto nello studio del suo terapeuta. Mentre scrivevo questa storia la mia attenzione è stata rapita da una persona che la ladra del portafoglio nomina en passant: il suo ex capo, un produttore musicale che usa sbriciolare scaglie d’oro nel caffè e si spruzza uno spray pesticida sotto le ascelle. Volevo far ridere giocando sullo stereotipo del produttore musicale decaduto. Ma dopo avere finito il capitolo mi sorpresi a riflettere su quale fosse, esattamente, la personalità di questo individuo che mangia oro e si deodora con i pesticidi. Perciò decisi di scrivere una nuova storia su di lui, che diventò il capitolo del romanzo titolato «La cura dell’oro». E andai avanti così. Quanto alla scelta di passare dalla prima persona alla seconda o di far parlare un narratore onnisciente, molto raramente scelgo come affrontare i materiali della mia scrittura partendo dalla questione del punto di vista; quasi sempre, invece, procedo in modo piuttosto istintivo. Nel caso di Bennie e di Sasha, la prospettiva di un punto di vista terzo e al tempo stesso interno alla loro storia, mi sembrava la più appropriata. Con il senno di poi, credo che almeno in parte la ragione della mia scelta derivi dal fatto che entrambi sono persone molto riservate, la cui vita interiore è quasi del tutto nascosta a coloro che li circondano. È vero che, a vantaggio del lettore, penetro nella loro intimità rivelando nei dettagli quei deplorevoli segreti che tengono riservati al resto del mondo; ma farli parlare in prima persona mi sembrava comportasse una violazione eccessiva della loro privacy. Però sto tirando a indovinare: come dicevo, la mia decisione è stata del tutto istintiva. Quanto all’uso della seconda persona nel capitolo titolato «Fuori dal corpo», questa scelta era fondamentale alla costruzione della storia di un ragazzo che non si piace, che si sente a disagio con se stesso: perciò ho lasciato che raccontasse quanto gli accade e al tempo stesso implicitamente lo sconfessasse. La prima persona non avrebbe funzionato: Rob non avrebbe mai potuto svelarsi in modo così diretto. E in qualche modo anche la terza persona sarebbe suonata falsa, forse perché troppo intrusiva, o troppo saccente. Uno dei miei obiettivi, nella stesura del romanzo, era scriverne ogni parte in modo completamente diverso, sia per ciò che riguarda l’atmosfera, che la tonalità e la tecnica della narrazione.
Alcune volte lei apre delle brevi parentesi che, come altrettanti flash, illuminano il lettore sul destino di alcuni personaggi, o anche di semplici comparse. Si direbbe che immaginarli nel futuro sia una sorta di compensazione narrativa al fatto di averli così presto abbandonati nel romanzo. Lei come mai ha sentito questa esigenza di dirci cos’è che accadrà loro?
La prospettiva di scrivere un romanzo il cui tempo presente fosse saturato dalla consapevolezza di ciò che il futuro avrebbe portato con sé mi intrigava da tempo. Mi sembrava entusiasmante. Trovo molto coinvolgente, per diversi aspetti, quello strano impatto emotivo che proviene dalla conoscenza del futuro di un personaggio, come accade – per esempio – in Pulp Fiction – dove vediamo Vince Vega, impersonato da John Travolta, ucciso nel bagno: è uno dei personaggi principali, dunque la sua morte casuale, nel mezzo del film, piomba sullo spettatore come uno shock. Ma poi, nella parte seguente, Vince torna a comparire, vivo e vegeto, anche se noi capiamo che è prossimo alla fine. E questa consapevolezza infonde alla scena una incredibile potenza e un enorme pathos. Tutte queste emozioni vengono evocate semplicemente grazie a una amministrazione del tempo facile da comprendere. Nel mio romanzo ho tentato di realizzare qualcosa di simile. Ma, in realtà , quasi tutti i salti in avanti nel futuro sono confinati in un capitolo, quello titolato «Safari»; poiché non volevo ripetermi, dovevo limitare i mixaggi temporali a quelle pagine. Naturalmente poi, l’intero romanzo finisce per comunicare questo stesso effetto, come se ci si muovesse avanti e indietro nel tempo, e il lettore avesse più cognizioni sul futuro dei personaggi di quanta non ne abbiano loro stessi.
Lei ha scelto di attribuire a Sasha, la protagonista femminile del romanzo, il vizio di rubare: alle persone piuttosto che ai negozi; ma – evidentemente non a caso – non usa mai, per lei, l’attributo di cleptomane. Quale senso voleva dare a questo vizio di Sasha?
Mi è capitato di ritrovarmi a dare una descrizione intuitiva del furto di Sasha, poi andando avanti nella scrittura mi è sembrato naturale che lei rubasse non a causa della sua povertà o per un senso di deprivazione, ma per una qualche forma di compulsività . Il che può somigliare o meno a quanto si intende normalmente per cleptomania, ecco perché non uso mai questo termine. Del resto, non sono interessata a fare una diagnosi dei miei personaggi, anche se nei miei libri affiorano varie forme di problemi mentali. Le diagnosi sono utili nel mondo della medicina, allo scopo di prescrivere i trattamenti giusti, ma non sono altrettanto necessarie nel regno della finzione, dove risultano potenzialmente limitanti e riduttive. Capivo come avrebbe potuto funzionare la compulsività di Sasha perché conosco altri comportamenti coatti, e in particolare la mania di procurarsi ferite (mi riferisco alle persone che si tagliano o si bruciano allo scopo di alleviare il loro dolore mentale): sono casi di cui ho scritto qualche anno fa per il New York Times Magazine. Dal momento che non ho mai parlato di me né di persone a me note, ho dovuto estrapolare in qualche modo ciò che racconto (anche se non sempre consapevolmente) da conoscenze che mi sono guadagnata per altre vie, tramite gli altri e spesso grazie al mio lavoro come giornalista.
Sul «Guardian» lei ha scritto un articolo in forma di racconto, in cui riepilogava gli anni della sua giovinezza sotto il segno delle canzoni di Patti Smith. Ci può raccontare quale ruolo hanno avuto nella sua formazione di persona e di romanziera le sue frequentazioni musicali?
In quell’articolo ho cercato di catturare la sensazione che mi dava la musica (in particolare quella di Patti Smith, un idolo della mia adolescenza) quando la sentivo come un fattore capace di definirmi. Credo che la musica funzioni così per molti ragazzi: quella che ascoltiamo da adolescenti ci consegna una collocazione e ci definisce per il resto delle nostre vite, a prescindere dal fatto che continuiamo o meno a sentirla. La mia band preferita quando ero una adolescente era quella degli Who: mi presi una enorme cotta per Roger Daltrey, ero convinta che i nostri cammini fossero destinati a incrociarsi in qualche punto nel futuro. La musica funziona come una sorta di macchina del tempo, questo è l’effetto che mi faceva anche mentre stavo scrivendo il mio ultimo romanzo. Di solito non ascolto musica mentre lavoro, ma ne ho sentita un bel po’ durante la stesura del Tempo è un bastardo : mi aiutava a ricalibrarmi nel passaggio da un capitolo all’altro, a rinfrescarmi l’umore e a trovare un tono nuovo, di volta in volta. Inoltre, la musica mi ha fornito una lente attraverso la quale guardare ai mutamenti tecnologici: come tutti sappiamo, l’industria musicale è stata devastata dalla digitalizzazione. È tutto cambiato, e l’idea stessa dell’album, questo pilastro del consumo musicale (che sia in vinile o in Cd) rimanda a un artefatto sempre di più nostalgico. Alla luce di tutto ciò, mi sembrava fosse il tempo giusto per ricordare l’industria musicale nell’era in cui sembrava imbattibile.
Paul Valéry ha scritto che noi definiamo un autore originale quando non riusciamo a ricostruire le trasformazioni che i libri degli altri hanno subito nella sua mente, ovvero quando le influenze sulla sua opera sono particolarmente intricate. Il suo romanzo sembra appartenere a questa categoria, anche se alcune ascendenze sembrerebbero facilmente rintracciabili. Per esempio, tutto il romanzo è pervaso da una sorta di afflato epico, per quanto postomoderno, che rimanda a DeLillo, in particolare alla fine di «Underworld»; il capitolo in cui lei allestisce la coreografia di un safari fa pensare a Hemingway; le note a pie di pagina, che lei mette nel capitolo in cui Jules parla in prima persona rimandano a Foster Wallace. E il fatto di affidare alcuni capitoli a personaggi che parlano in prima persona naturalmente rimanda al Faulkner di «Mentre morivo». Si riconosce in questi precedenti?
Assolutamente sì, questi hanno funzionato, appunto, come quattro imponenti influssi della mia narrativa. Underworld è il mio romanzo preferito tra quelli degli ultimi vent’anni, e in generale DeLillo ha avuto una enorme impatto su di me. Faulkner mi ha potentemente influenzato fin dagli esordi, e Come morivo è, tra i suoi libri, uno di quelli che amo di più. L’originalità di David Foster Wallace, il suo animo grande e il suo humor infettivo hanno infiammato tutti noi che siamo stati suoi coetanei. E ho amato molto Hemingway: tra i suoi libri, il primo che ho letto è stato Verdi colline d’Africa; avevo diciassette anni e anch’io stavo partecipando a un safari in Africa. Ma una tra le sfide principali di questo romanzo era come abbracciare una qualche dimensione epica in forma concisa. E quando mi sono ritrovata a chiedermi come avrei fatto a scrivere un libro sul tempo, in cui presentare in un modo o nell’altro la radicalità dell’impatto che il passaggio degli anni infligge alle diverse vite dei personaggi senza impiegare migliaia di pagine, ho pensato da una parte alla Recherche di Proust e dall’altra alla serie Tv titolata I soprano. Istintivamente, credo, ho trovato la risposta che cercavo nel metodo della divisione in puntate; che oggi ci è reso familiare dalle fiction televisive, ma che originariamente era stato messo a punto dai grandi serializzatori del XIX secolo, come Dickens. Un vasto cast di personaggi che vanno e vengono dal fuoco della narrazione; un senso forte dei movimenti a latere; e una storia principale, che spesso procede obliquamente nel tempo, ma il cui narratore è dotato di una forza che, nonostante tutto, ci proietta in avanti.
Una delle comparse del suo romanzo, una studiosa di nome Rebecca, sta lavorando a un libro sul fenomeno degli «involucri verbali», ossia quelle parole che il loro cattivo uso ha svuotato del significato originario e che acquistano un senso solo se messe tra virgolette. A suo parere, quali sono i fattori che hanno contribuito di più alla nostra degenerazione linguistica, e come le è venuta l’idea di attribuire a Rebecca questa ricerca?
Naturalmente, Il tempo è un bastardonon è un trattato di critica bensì un’opera di finzione, scritta – prima di tutto – per divertimento. Inoltre, non solo il libro non è un veicolo delle mie opinioni, ma spesso le mie opinioni costituiscono proprio ciò che sono più impaziente di escludere. Perciò, per esempio, il fatto che Bennie Salazar consideri i nostri avanzamenti nel regno digitale come un «olocausto estetico» non significa che anch’io la pensi nello stesso modo, e infatti non la vedo così. Dunque, gli studi di Rebecca sulle parole ridotte a involucri verbali non dovrebbero venire interpretati come un mio commento didattico al deterioramento del linguaggio: francamente, se avessi voluto comunicare un simile parere, non mi sarei presa il disturbo di nasconderlo in un romanzo. Il mio scopo non è mai quello di condannare, semmai spesso è l’opposto: per esempio, gli sms che includo nell’ultimo capitolo del libro mi intrigavano per la loro bellezza e concisione: trovo quasi poetico il modo in cui risuonano i loro strani messaggi compressi. Quel che mi interessa è come certi tipi di linguaggio si imbastardiscono con il passare del tempo, mentre altri diventano inaspettatamente intensi e luminosi.
Il suo romanzo si muove nel tempo con la libertà di una cinepresa, e si avvantaggia di una costruzione per episodi, che lo rende ancora più cinematografico. Come è riuscita a ottenere questo effetto?
Ci sono arrivata istintivamente. Il libro mi si è rivelato in una forma che mi è sembrata fresca, e meritevole di venire assecondata. Mi piaceva provare a fissare il momento in cui ogni persona è al centro della sua propria storia, e mi piaceva l’idea di fondere tante vicende che si sovrappongono in un unico grande intreccio. È stato solo quando mi sono ritrovata a nominare le due metà del libro «A» e «B» che ho realizzato qual era la forma alla quale avevo lavorato durante tutto quel tempo: la forma del «concept album», l’album discografico che ruota intorno a un unico tema. Una grande storia raccontata per frammenti che suonano completamente diversi gli uni dagli altri: era questo che stavo tentando di realizzare, in forma letteraria.
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