Il Pd non può non cambiare la riforma. Il Pdl soffia sul fuoco
Pier Luigi Bersani, ieri a Cernobbio, ha tenuto il punto. È «interesse di tutti fare andare avanti una riforma», avverte. Il problema di non votare la riforma del lavoro «non si pone», rassicura. Ma il Pd non può accettare la formulazione dei licenziamenti più facili uscita venerdì da Palazzo Chigi. Bisogna «cambiare qualcosa», e quel qualcosa, per il Pd (ma anche per la Cgil, e in parte per la Cisl) è la reintroduzione del «reintegro», almeno fra le opzioni del giudice che deve decidere della liceità del licenziamento.
Ma le possibilità di modificare in meglio quella parte del provvedimento sono poche. Intanto, dipende da dove inizierà l’iter della legge. Il presidente Schifani in questi giorni sta facendo pressing per portarla al senato, ma Palazzo Chigi ha una preferenza per la camera, dove siedono i leader di partito a cui i media sono più attenti. E comunque, per ora, non c’è una maggioranza buona per reintrodurre il «reintegro», a cui sono favorevoli solo Pd e Idv. Il Terzo Polo, anche la parte vicina alla Cisl, saluta «la modernizzazione del mercato del lavoro», «la riforma che si fa per assumere» e «il segno che si va verso la crescita».
La Lega annuncia battaglia, ma ieri Roberto Maroni si è posizionato contro la riforma dell’art.18, ma lontano dal Pd e dalla Cgil («se scenderemo in piazza, sarà un’altra piazza e un’altra ora»). «La riforma non ci piace», ha detto l’ex ministro del lavoro. «Non tanto per l’art. 18, che è un pasticcio. Non si applica agli statali, e secondo Tito Boeri, che non è certo uno di destra, aumenta il contenzioso e crea difficoltà per le aziende». Ma il collega Roberto Calderoli sul punto è meno possibilista: «Al posto che combattere la crisi incrementando la produttività , il governo e i partiti che lo sostengono hanno deciso di tagliare i salari reali. Con questa modifica dell’art. 18 l’imprenditore, con la scusa della crisi economica, licenzierà i 50enni, che hanno un costo maggiore, e li rimpiazzerà con i 25enni che costerebbero la metà ».
Sacrosanta osservazione. Ma in ogni caso, il Pd difficilmente potrebbe i sommare i propri voti a quelli di dipietristi e leghisti, gli unici due gruppi parlamentari contrari al governo e fuori dalla maggioranza di Monti.
Ed è l’ennesimo rebus per Bersani, che domani mattina riunirà la direzione del suo partito e ricompatterà – momentaneamente – il suo non proprio omogeneo gruppo dirigente sugli emendamenti da presentare in aula. Il leader Pd ha un po’ di tempo per inventarsi una soluzione. L’approvazione della legge ha tempi dilatati, non arriverà prima di giugno. Comunque dopo le amministrative di maggio. Dalle quali uscirà ridefinito anche il rapporto fra Lega e Pdl. Che ieri ha segnato un’altra mezza rottura: Angelino Alfano ha sospeso dal partito i 14 dirigenti che a Verona intendono candidarsi con il sindaco leghista Flavio Tosi, in un monocolore verde camuffato da assembramento di liste civiche.
Quanto al governo, anche Alfano tiene il suo punto: il governo che ha approvato con legge e non decreto la riforma «salvo intese» «è più debole». Quindi meglio che «le forze che lo sostengono giungano a un’intesa». Anche perché, è l’avvertimento, «se si comincia a lavorare a delle modifiche non si può immaginare che avvengano solo sul capitolo dell’art. 18 e che siano modifiche di un solo colore». E questo è un altro ‘consiglio’ interessato di cui Bersani deve tenere conto.
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