Il patto sulla riforma chiesto dal Professore

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Monti vuole un accordo politico sulla riforma del mercato del lavoro, chiede che i leader della «strana maggioranza» siglino l’intesa in sua presenza, facendosene garanti in Parlamento. Se è vero che l’incantesimo si è rotto, se è vero che i partiti stanno tentando di riprendersi un primato che per quattro mesi avevano delegato ai tecnici, è altrettanto vero che Monti non intende assistere senza reagire al logoramento del suo governo. Perciò aspetta di rientrare in Italia per convocare un vertice con Alfano, Bersani e Casini, così da avere garanzie sui contenuti della riforma e sui tempi di approvazione del disegno di legge. La mossa di Monti non è quella di un professore piccato per una mancata riverenza, né il tentativo di rappresentare i partiti come una classe indisciplinata.
Terrà  per sé il disappunto per i toni con i quali è stato criticato e anche la delusione per l’atteggiamento del Colle. Lo stato d’animo per quanto gli è accaduto traspare nel modo in cui avvisa che «io non tirerò a campare». Epperò Monti è consapevole che gli stati d’animo non sono annoverati tra le categorie della politica, il chiarimento con la «maggioranza» servirà  piuttosto per porre i suoi interlocutori davanti alle loro responsabilità . Non accetta che la scelta di procedere attraverso un disegno di legge e non per decreto sia scambiata per arrendevolezza, pretende «reciprocità » da parte dei suoi interlocutori, un punto di equilibrio sul testo della riforma e un calendario parlamentare che non la consegni all’oblio.
La deadline per approvare il provvedimento è luglio, ci si potrebbe spingere al massimo a settembre. Oltre non sarebbe possibile andare per effetto del magnete elettorale, perché a quel punto il Pd — in vista delle urne — non sarebbe disposto a qualsivoglia frizione con il proprio elettorato e con la Cgil, e il Pdl non forzerebbe la mano: «Noi — come dice Alfano — siamo il partito delle assunzioni non vogliamo passare per il partito dei licenziamenti». Ecco il motivo per cui Monti vuole sapere anzitempo se ci sono i margini per fissare un patto. E mentre si scatena il pissi-pissi di Palazzo, le voci cioè che vorrebbero la fine anticipata della legislatura e il voto a ottobre, i partiti della «maggioranza» si acconciano per dare una risposta al professore.
Oggi l’ABC della politica tornerà  a vedersi, e in agenda ci dovrebbero essere «solo» le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale. Si preannuncia una fumata nera, inevitabile: com’è pensabile un accordo se non si conoscono ancora gli equilibri politici futuri? Perché mai il Pdl e il Pd dovrebbero concedere già  oggi all’Udc un sistema di voto diverso da quello attuale che gli garantirebbe le mani libere nel prossimo Parlamento? E soprattutto, quale intesa potrebbe stringersi sui nodi strutturali di sistema, se prima non si è stabilito come procedere sugli assetti Rai, sulla giustizia, e soprattutto sulla riforma del mercato del lavoro?
Per arrivare a un’intesa è necessario quindi partire da un accordo sul provvedimento presentato dal governo. È difficile immaginare quale possa essere il punto di mediazione tra chi — come Bersani — insiste ad opporsi alla nuova formulazione dell’articolo 18, e chi — come Alfano — non accetta che il disegno di legge si trasformi in una «riformetta». Casini cerca di lavorare a un compromesso, Buttiglione sostiene ci sia uno spazio sull’interpretazione della norma che prevede solo l’indennità  per i licenziamenti economici: «Non spetterebbe al giudice stabilire il reintegro, a meno che il lavoratore non riesca a dimostrare che si tratta di un licenziamento discriminatorio».
Ma è chiaro che l’intesa non può essere sul merito, non può nascere dal lavoro del Parlamento. O l’accordo sarà  politico o il percorso della riforma terminerà  sul binario morto. A quel punto si vedrà  quali saranno le conseguenze, se davvero Monti staccherà  la spina. Per quanto paradossale, l’indebolimento del premier è legato al suo «gesto di responsabilità ». Perché — come disse il sottosegretario alla Presidenza, Catricalà , al battesimo dell’esecutivo in Parlamento — «il destino di questo governo sarà  agire attraverso i decreti e andare avanti con i voti di fiducia». Appena lo schema è cambiato, è cambiato tutto.


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