Il monopolio del libro

by Editore | 8 Marzo 2012 7:07

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Correva l’anno 1993 e i possessori di fax si videro recapitare una rivista che era stata concepita unicamente per quello strumento. Era fatta di brevissime recensioni e di letteratura comica, di attualità  e di laboratorio narrativo. Minimum Fax nasce così, dall’idea di due amici, Daniele di Gennaro e Marco Cassini, insieme a Francesco Piccolo e Antonio Pascale, conosciuti in un corso di scrittura: i contenuti per la rivista c’erano, i soldi per stamparla no. Allora, meglio il fax. 
La parola è rimasta nel nome della casa editrice, che vede la luce l’anno successivo (con Scrivere è un tic di Francesco Piccolo) e che oggi vanta quattrocento titoli in catalogo, una decina di collane e da poco un marchio indipendente, Sur, dedicato alla letteratura latinoamericana: «E nonostante tutto pubblichiamo meno libri – racconta Marco Cassini, che della discussione sulla necessità  di una “decrescita felice” in editoria è stato protagonista qualche mese fa – : lo scorso anno sono usciti quaranta titoli, di cui tre in Sur. Quest’anno manderemo in libreria venticinque novità  Minimum Fax e sette Sur».
Partiamo da Sur: perché non è una collana ma una casa editrice indipendente?
«Perché vogliamo provare a sperimentare: non solo nei contenuti, ma soprattutto nella distribuzione. Quella di Sur è una filiera corta. Andiamo direttamente alle librerie senza passare per il distributore. Volevamo che editore e libraio, che sono principalmente due intellettuali, tornassero a parlare di libri, perché negli ultimi anni la discussione sembrava essersi spostata solo su sconti, campagne, prezzi di copertina. A Sur hanno aderito, finora, 96 librerie indipendenti (per il 2012 puntiamo all’obiettivo di 200) che potranno ricavare così fino al 51% del prezzo di copertina, circa il doppio di quanto avviene abitualmente. Per noi significa poter avere i nostri libri più a lungo sugli scaffali: i primi tre titoli sono usciti a ottobre, i prossimi saranno pubblicati ad aprile. Il libraio ha sei mesi di tempo per lavorarci: può leggere le bozze prima di ordinarli, sentirsi parte del progetto. E, pur non essendo bestseller, si continuano a vendere». 
Il nodo, dunque, è nella distribuzione: pensa che rischi di soffocare i medi e piccoli editori? 
«L’Italia è un Paese meraviglioso e pieno di unicità . Fra queste, c’è un mercato editoriale in cui pochi soggetti posseggono tutta la filiera del libro. I principali distributori sono anche i principali gruppi editoriali e le principali catene librarie. Un qualunque editore non sa mai se il soggetto che sta lavorando per lui è, in quel momento, il suo distributore, l’editore concorrente o il libraio. Insomma, c’è il legittimo sospetto che a volte le cose possano non andare nel modo più trasparente possibile. Pensi anche al modo in cui i libri vengono esposti. Soprattutto nelle grandi superfici delle librerie di catena o dei supermercati: il lettore meno avveduto non sa se quei libri sono in vetrina o in posizione strategica perché il libraio ci crede, e quel modo di proporli fa parte di un progetto culturale o perché qualcuno ha comprato lo spazio. In questi casi si dovrebbe fare come nelle televendite: far apparire la scritta “questo spazio è stato acquistato dall’editore”». 
La strategia di vendita attuale, però, si fonda sul prezzo del libro. Anzi, sul basso prezzo. Minimum Fax è stata fra i sostenitori dell’attuale legge che limita gli sconti. Provvedimento che non sembra essere stato molto amato dai lettori, che premiano comunque i libri che costano meno di dieci euro.
«Il recente fenomeno Newton Compton ha l’indubbio merito di aver innescato una discussione, e di aver messo in crisi soprattutto i grandi editori. Quelli di noi che hanno lottato per la legge Levi sugli sconti potrebbero anzi farsene un vanto. Avevamo sottolineato come i prezzi fossero “drogati”: erano troppo alti, e si fingeva fosse un grande vantaggio per i lettori poterli acquistare con lo sconto. D’altra parte, è rischioso abbassare troppo a discapito soprattutto dei librai, che restano l’anello debole della catena. E dei lettori: esiste la possibilità  che per vendere a prezzi bassi si tagli sui costi, a discapito, in questo caso, della qualità . Una politica simile può essere sostenibile solo a determinate condizioni». 
Qual è il vostro prezzo di copertina, mediamente?
«Fra i 13 e i 14 euro, con punte di 18, come per Il tempo è un bastardo, del premio Pulitzer Jennifer Egan. Non vogliamo cadere nel tranello di abbassare i prezzi per timore che i nostri libri non vendano. Anche perché la nostra porzione di lettori afferisce alla parte alta della piramide: quella dei lettori forti, che sanno attribuire il giusto valore a un libro di qualità ».
Torniamo alla questione che continua a essere centrale: vince, o resiste, la casa editrice con un’identità  forte, dunque?
«Sì. E l’identità  è data dal catalogo, non certo dal prezzo di copertina. Come editori forse non saremmo in grado di inseguire una moda editoriale, anche perché lavoriamo in modo meticoloso, e probabilmente rischieremmo di arrivare a moda già  finita. Ci interessa invece rivolgerci a un pubblico attento, che finisca col fidarsi del marchio».
Come si arriva a ottenere fiducia?
«Col tempo. Noi abbiamo avuto un unico bestseller in senso stretto, Acqua in bocca di Camilleri e Lucarelli: abbiamo raggiunto numeri mai toccati, siamo rimasti tre mesi in classifica e abbiamo, per una volta, misurato le forze con altre grandezze. Però abbiamo alle spalle libri che hanno totalizzato decine di migliaia di copie vendute, portando a questo risultato tanto autori esordienti come Giorgio Vasta o Valeria Parrella, quanto grandi scrittori internazionali. Siamo stati i primi editori al mondo a tradurre David Foster Wallace quando era poco conosciuto anche negli Stati Uniti. Cinquecentomila lire di anticipo per Una cosa divertente che non farò mai più. Abbiamo riesumato Carver dalla morte editoriale, visto che in Italia era stato abbandonato. Abbiamo riscoperto Richard Yates e Revolutionary Road ben prima del film. Insomma, oggi i lettori capiscono da dove arriva Jennifer Egan e perché è nel nostro catalogo».
La fiducia vi aiuterà  a resistere al tempo di crisi? Crede, insomma, che il ruolo dell’editore diminuirà  d’importanza con gli e-book? 
«Abbiamo il vantaggio di poter trarre esperienza da quanto è avvenuto all’industria discografica e a quella dell’audiovisivo. Anche per questo abbiamo immaginato il progetto Sur come qualcosa di molto fisico: un po’ come fosse il nostro vinile. D’altro canto, Minimum Fax ha già  oltre cento titoli in e-book e le novità  vengono proposte anche in formato digitale. Non sono spaventato, ma entusiasmato: è una fortuna fare l’editore mentre c’è un cambiamento di questa portata in atto».
E degli editori che si accostano al self-publishing, come Penguin e, da noi, Mondadori, cosa pensa?
«Che la definizione stessa è ambigua. Se è self non può essere publishing. Mettere a disposizione una piattaforma per pubblicare gratuitamente dei testi è come dire: accomodatevi alla mia scrivania e leggete qualunque manoscritto mi inviino. Sono comunque io, editore, a invitarvi e a dare il mio nome a qualcosa che si pretende sia self, e che di certo non può avere una finalità  filantropica: i supporti editoriali in senso stretto (editing, ufficio stampa, promozione) l’autore deve pagarli. E allora, che differenza c’è con l’editoria a pagamento?».
Infine: cosa deve essere un editore. Un filtro, una scuola, oppure?
«Discussione. Con il lettore e, ancor prima, nella casa editrice. Quanto più è forte e approfondita all’interno, tanto migliore sarà  la discussione che ne seguirà  all’esterno».

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