Il «buen vivir» degli indios che non piace a Correa

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Negli ultimi giorni l’Ecuador di Rafael Correa è stato attraversato da una lunga marcia partita dalla regione amazzonica di Zamora Chinchipe e culminata il 22 marzo a Quito. Migliaia di indigeni hanno percorso a piedi e in bus le strade dell’Ecuador, manifestando così la propria opposizione allo sfruttamento di giacimenti minerari e petroliferi. La manifestazione iniziò lo scorso 8 marzo a Zamora Chinchipe, allo slogan di «Para el agua, para la vida, para la dignidad », dopo che il governo aveva reso pubblica l’approvazione di una concessione mineraria all’impresa cinese EcuaCorriente. La concessione ha una durata di 25 anni e genererà , secondo i dati ufficiali, un ingresso di 4.458 milioni di dollari per lo Stato equadoregno. Il governo ha ribadito la sua decisione, insistendo più volte che questo sarà  un progetto di attività  mineraria responsabile, con un occhio alla prevenzione di danni ecologici e sociali. La marcia, indetta dalla Conaie (Confederacià³n de Nacionalidades Indà­genas del Ecuador), dal partito politico indigeno Pachakutik e appoggiata da altri movimenti sociali, ha ribadito la sua opposizione a qualsiasi politica estrattivista, giudicando la decisione presa a Zamora Chinchipe anti-costituzionale in quanto violerebbe il diritto alla protezione della natura garantito dalla Costituzione. I manifestanti sono giunti a Quito oggi il 22 marzo e si sono concentrati nel parco del Arbolito. Intanto in tutta Quito arrivavano a migliaia i simpatizzanti di Alianza Pais (il partito di Correa), in una contromarcia organizzata dallo stesso governo. «Se loro sono cinquecento, noi saremo cinquantamila» aveva dichiarato il presidente da Madrid, dove si trovava in visita ufficiale. Infatti, mentre iI palazzo dell’Assemblea veniva circondato da poliziotti per impedire l’accesso ai manifestanti indigeni, il presidente ha percorso le varie piazze di Quito dove erano riuniti a migliaia i suoi simpatizzanti. Dal palco di Plaza de la Independencia, Correa si è sfogato appassionatamente contro «gli oppositori» i quali, ha dichiarato, sono oligarchi che con i loro mezzi di comunicazione cercano di ostacolare il progresso della rivoluzione socialista. Già  dall’inizio della marcia i manifestanti erano stati descritti, da rappresentanti di Alianza Pais e dallo stesso Presidente, come golpisti, attentatori alla democrazia, o burattini manovrati dagli oligarchi della destra. Invano i leaders indigeni hanno negato qualsiasi intenzione di destabilizzare il governo. Nonostante le accuse rivolte da Correa, la maggioranza delle persone arrivate a Quito non avevano affatto l’aria di un gruppo di ricchi oligarchi golpisti. Accanto ai dirigenti e ad alcuni personaggi politici hanno marciato uomini e donne indigene (e non) che dichiaravano solo un fine, quello di difendere il diritto alla natura, l’acqua e la vita. La strategia di demonizzazione portata avanti da Correa negli ultimi giorni ha oscurato il significato fondamentale della marcia. Le due marce non opponevano i veri difensori della democrazia a golpisti corrotti, come dichiarato dal presidente, ma piuttosto cristallizzavano due versioni del «suma k kawsay » («vivere bene» in Kichwa), principio fondamentale della Costituzione ecuadoriana. La prima versione, del governo, è dominata da una retorica dello «sviluppo» e «progresso» che implica necessariamente un accumulo di risorse dato dallo sfruttamento petrolifero e minerario (anche se, come ripete Correa, in «maniera responsabile») mentre l’altra propone, nelle parole di Alberto Acosta, intellettuale ed ex ministro dell’Economia di Correa, che il concetto stesso di «sviluppo» sia ripensato. Correa ha ribadito più volte, nei giorni precedenti alla marcia, che chi si oppone alla marcia si oppone al «progresso» e desidera quindi «tornare all’età  della pietra», creando così una contrapposizione fra il suo governo, dedito al progresso illuminista, e i quattro gatti con poncho e piume (come lui stesso li ha definiti) che desidererebbero il ritorno alla preistoria. Il problema di questa visione evoluzionistica del progresso è che proprio su questa stessa concezione si basa quel neoliberismo a cui tanto si oppone Correa. L’accumulazione di risorse materiali, anche se per il bene comune, contrasta chiaramente con il concetto indigeno di sumak kawsay che coinvolge una densa rete di significati, dall’apprezzamento per la bellezza naturale e sociale fino alla capacità  di relazionarsi con esseri inanimati come acqua, terra e montagne. Ciò non significa che tutti gli indigeni partecipino nella filosofia del sumak kawsay , che siano contro lo sfruttamento del petrolio o che rifiutino i benefici, come istruzione e salute, che il «progresso» porta. Proprio per questo il rapporto fra «vivere bene», «progresso» e mondo indigeno è un tema estremamente complesso e delicato, che richiede una sensibilità  profonda da parte dello Stato, sensibilità  che Rafael Correa con la sua contro-marcia, le accuse e i richiami alla realpolitik, in questa occasione non ha mostrato.


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