IL FANTASMA DI ANDREOTTI

by Editore | 27 Marzo 2012 8:46

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Da professore a politico. Questo si direbbe oggi del presidente Monti che dalla lontanissima Corea ha fatto chiaramente una mossa buttando lì una formula sibillina che secondo certi moduli della politica politicante si potrebbe anche interpretare come un bluff e al tempo stesso come un avvertimento: se è così, me ne vado.
Attraverso il richiamo al famoso motto del Divo Giulio, uno dei tanti di cui si è alimentato l’immaginario della Prima Repubblica, il premier della Terza ha infatti voluto chiarire agli eventuali malintenzionati che il suo governo non è disposto a vivacchiare, essendo ben più ambizioso e vantaggioso per l’interesse generale il traguardo che gli è stato chiesto di conseguire e per il quale è stato chiamato, eccetera, altro che l’obiettivo di durare a tutti i costi. 
Sottile e nel contempo abbastanza cruda com’era nello stile andreottiano, la rivendicata esortazione ad accontentarsi badando soprattutto a salvarsi la pellaccia scaturiva da una di quelle dispute apparentemente lessicali, di pretto gusto democristiano, entro cui in realtà  si dispiegavano i perenni archetipi del comando – e prova ne sia che l’hashtag o argomento politico ieri più frequentemente twittato risulta proprio «Andreotti».
Era l’inverno del 1991 e il più scaltro temporeggiatore di tutti i tempi, per giunta assistito da un duplice scetticismo romano e curiale, navigava a vista nel suo sesto governo dopo aver sostituito ben sei ministri, in un colpo solo, con un nugolo di sottosegretari pure dimissionari, ma a bagnomaria, navigando tra gli scogli della legge televisiva e di quella punitiva sulla droga, tra lo scandalo Bnl e il caso Orfei, la prima guerra del Golfo e le picconate di Cossiga. Craxi inoltre era irrequieto, ma De Mita, spodestato con maestria da Palazzo Chigi e da piazza del Gesù, lo era ancora di più. Per cui un giorno di febbraio se ne venne a Foligno, a un convegno di giovani amministratori dc, e si cacciò il rospo: «Meglio le elezioni che tirare a campare».
Andreotti gli rispose il giorno dopo, sempre a Foligno, nel modo colorito che Monti ha ricordato da Seul. Per la cronaca, ma con il dovuto sgomento, si può aggiungere che secondo le cronache l’allora presidente del Consiglio mise al centro del suo intervento il tema del risanamento del disastroso debito pubblico, sottolineando il costo crescente degli interessi e la necessità  di invertire la rotta: «Questo oggi non possiamo più permetterlo. Se in pochi anni non facciamo un riassetto dei nostri conti – chiarì dunque Andreotti – saremo i responsabili del fallimento del disegno di unione europea che si realizza anche attraverso l’unione monetaria». E pensando alla situazione 21 anni dopo si resta trasognati, oppure viene da rifugiarsi dietro una di quelle pensose, arcane e generiche espressioni – «mah», «vabbè», «insomma» – che dell’andreottismo reale e praticato costituivano l’accondiscendente schermatura.
A supporto teorico, l’allora presidente richiamava spesso la testimonianza di una sua certa zia, di nome Mariannina, secondo la quale «tutto» si aggiustava. Eppure il dilemma se sia meglio la morte di una esistenza mediocre sopravvive al tempo in cui venne così efficacemente formulato.
Se un pensatore come Elias Canetti fa in qualche modo coincidere il potere con la sopravvivenza, il tirare a campare reclamato dal Divo con il pretesto della pazienza e della mediazione contro qualsiasi «ballo di San Vito» era piuttosto un metodo, una strategia, una filosofia e addirittura un’arte che nel novero dell’attività  di governo, ben lungi dal populismo berlusconiano, finiva per cementarsi su una serie di verbi all’infinito: galleggiare, sdrammatizzare, raffreddare, sminuzzare, rinviare, barcamenarsi sempre allungando il brodo e di continuo invocando «adeguati approfondimenti» – salvo intendersi con questo, con quello e con quell’altro.
Come dire tutto ciò che secondo i professori ha portato all’odierno sfacelo, ma senza cui il potere finisce irrimediabilmente per configurarsi come un’entità  fredda, senza alternative, una specie di macchina che risponde ad astratte contabilità  e impietosi automatismi. Sempre che il capo dei tecnocrati non abbia l’accortezza di rinunciare, in parte, alla tecnica per accogliere, in parte, qualcosa della professione politica. 
Minore rilievo simbolico e narrativo acquista a questo punto il fatto che De Mita, tignosissimo, proseguì quel ping pong di Foligno che ieri Marco Follini, come nessun altro addentro a questi lontani ricordi, ha qualificato «un derby». Così Ciriaco volle prendersi l’ultima parola: «Ho constatato che qualche volta, tirando a campare, si tirano le cuoia». Ma a pensarci bene anche questo è un punto di vista rimarchevole. E il sospetto è che Monti, in estremo oriente, ne sia consapevole assai più di quanto qui a Roma si possa immaginare.

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