IL DISASTROSO VIAGGIO DI MARK TWAIN IN ITALIA

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Quando Mark Twain, nel 1866, intraprende una crociera per l’Europa che lo porta per sei mesi in Francia, Italia e vicino Oriente ha poco più di trent’anni: non è ancora il celebre autore delle Avventure di Tom Sawyer, ma un letterato e giornalista affermato. Si prende una vacanza e senza alcun timor panico si diverte un mondo, con ironia e sarcasmo, nel mettere alla berlina usi e costumi dell’antico continente. Le pagine sull’Italia, ora proposte In questa Italia che non capisco, Mattioli 1885, nella traduzione di Sebastiano Pezzani, sono tratte da The Innocent Abroad (1869) e fanno pelo e contropelo alla letteratura di viaggio. In questa tradizione ci sono due cerniere essenziali: la fine del Grand Tour con le guerre napoleoniche, e l’irrompere di uno stuolo di viaggiatori dal Nuovo continente a partire almeno dalla metà  dell’Ottocento. 
Twain non è certo il primo, ma il piglio delle sue notazioni sul Bel Paese sono una novità  ed esse, dico subito, sono agli antipodi da quelle dei “pellegrini appassionati” alla Henry James. Twain non è affatto “innocente”, ma ostenta un candida ignoranza di arte, architettura e storia italiana. Anzi è come infastidito da questo fardello della storia che affonda un paese che giudica senza veli: «Questo paese è in bancarotta. Non c’è una solida base per opere grandiose», e si riferisce alla rete ferrata e alla pomposità  delle stazioni. Il suo spirito puritano lo fa gioire per la confisca dei beni della Chiesa, ma sulla folla di preti che incontra ovunque è feroce e tale sua indignazione è motivata dal fasto delle chiese e dei conventi. Ovviamente a Roma il suo anticlericalismo tocca l’acme, così come sul culto dell’Antico scrive pagine esilaranti sul Colosseo e i giochi gladiatori. La demistificazione dei luoghi comuni sembra essere la ricorrente cifra stilistica di queste pagine: inveisce contro le guide parlanti (“il pappagallo umano”) e scritte, non risparmiando nessuna delle consacrate icone del viaggio in Italia. Ha un occhio vigile, spregiudicato, che gli consente d’apprezzare il modo di vivere delle classi agiate italiane, assai meno operose di quanto non siano quelle del suo paese. «In America andiamo di fretta». Sbarcato a Genova s’inoltra a notte fonda nei carrugi: «le case strette ai nostri fianchi sembravano più protese che mai verso il cielo» e la voce del silenzio lo affascina. Quando scrive di paesaggi i suoi sensi vibrano e le pagine sono sempre seducenti: sul lago di Como «ville sontuose imbiancate dal chiaro di luna risaltavano dal nutrito fogliame che giaceva nero e informe»; quando sale sul Vesuvio la città , illuminata dalle lampade a gas, gli appare come «un collier di diamanti che scintillano nell’oscurità  lontana» ai margini dello «splendido golfo». Ma quando s’inoltra nel ventre della città  la sua analisi è spietata, ma con autoironia aggiunge: «Qualcuno potrebbe pensare che io abbia dei pregiudizi. Forse è vero. Mi vergognerei di me stesso se non li avessi». S’indigna per “l’impostura” del miracolo di San Gennaro. Venezia è «finita preda della povertà , della trascuratezza e di una triste decadenza». Ma al chiaro di luna appare «ancora un volta la più sontuosa tra tutte le nazioni della terra». È infastidito dai chilometri di dipinti che attraversa a Firenze, dove tutto, gli vien detto, è opera di Michelangelo. Si vergogna di non avere un’educazione artistica, ma si giustifica dicendo che in America non è contemplata. 
Twain guarda all’Italia e alla sua civiltà  con sentimenti contraddittori: l’attrae il contesto paesistico naturale e urbano che incontra di città  in città , ma sente che queste sprofondano di giorno in giorno in un immobile passato; è infatti sgomento per lo spettacolo di decadenza, la diffusa miseria, l’alterigia delle classi dirigenti divise dal popolo e chiuse nel loro privilegio. Un senso sincero d’angoscia lo pervade per quanto cade sotto i suoi occhi: il marciume che invade i Fori a Roma, a Venezia l’olfatto è offeso dai fetori che salgono dai canali, lo spettacolo di Pompei lo affascina, ma anche l’avvilisce. Un paese l’Italia per il quale non c’è redenzione possibile, né riesce a vedere un futuro. Viaggio contropelo quello dell’americano, in taluni casi persino urticante, in pagine letterariamente raffinate che oscillano tra sarcasmo, ironia e comico.


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