Il coltan al Congresso Usa
Inserita tra le righe di una enciclopedica riforma finanziaria, in discussione presso la Securities and Exchange Commission (l’ente di controllo sul mercato finanziario), è la norma che imporrà alle aziende i cui prodotti usano certi minerali come materia prima di dichiarare se quei minerali provengono dalla Repubblica democratica del Congo. Ovvero, dire se quei minerali sono stati estratti in zone di conflitto, se hanno contribuito a finanziare milizie ribelli: se sono «minerali insanguinati», per riprendere la definizione coniata per i diamanti che finanziarono la guerra civile in Angola.
La questione delle risorse naturali che finanziano guerre infatti non è nuova. È apparsa per la prima volta in modo chiaro con la guerra in Angola negli anni ’90, quando i ribelli antigovernativi occuparono le principali zone diamantifere per garantirsi un finanziamento continuo: e poiché i diamanti «non hanno odore», trovavano facilmente compratori – almeno finché, dopo le campagne di organizzazioni per i diritti umani, le Nazioni unite dichiararono un embargo sulle gemme provenienti dalle zone controllate dai ribelli. La questione si ripropose poi in altre guerre africane, e in particolare per il Congo, sconvolto da una prima guerra tra il 1996 e il ’97 (quando fu cacciato il dittatore Mobutu e l’allora Zaire divenne Repubblica democratica del Congo) e una seconda guerra, tra il ’98 e il 2002. Fu una guerra sanguinosa, si parla di tre milioni di morti (direttamente o per fame e malattie), e vi intervennero eserciti di diversi paesi africani in appoggio a questa o quella parte – tanto che la chiamarono «la prima guerra mondiale africana». E non è davvero finita, perché diverse ondate di ribellione sono continuate ben oltre e ampie zone del paese sono tuttora in stato di conflitto, con corollario di atrocità sui civili, stupri, arruolamento di bambini-soldato…
Il saccheggio delle risorse naturali ha avuto un ruolo chiave in questa guerra: il coltan (colombite-tantatile) indispensabile per l’industria elettronica di precisione, l’oro, il cobalto, i diamanti, il rame sono stati «il motore del conflitto», affermò nel 2000 il primo «Gruppo di esperti» formato dalle Nazioni unite per indagare lo sfruttamento di materie prime nel contesto della guerra. Da oltre un decennio dunque le Nazioni unite indagano e impongono embarghi sui minerali estratti nelle zone di conflitto del Congo. E oggi nessun rappresentante di nessuna industria occidentale oserebbe pubblicamente dichiararsi insensibile alla questione dei «minerali insanguinati». Però gli stuoli di lobbisti «calati» sulla Sec a Washington stanno ponendo ogni sorta di questione per limitare le restrizioni: chiedono (in modo «aggressivo», leggiamo sul New York Times, 19 marzo) periodi di transizione più lunghi, esenzioni per l’uso «minimale» di detti minerali, diluire le definizioni.
Il fatto è che oggi quasi tutti i prodotti di largo consumo usano minerali che potrebbero provenire (spesso in effetti provengono) dal bacino del Congo. Coltan in telefonini e palmari (e anche turbine giganti), tantalite nei microcircuiti, wolframite per il tungsteno delle lampade e poi oro, che oltre all’ovvio uso in gioielleria è un conduttore per l’elettronica. Il Congo è una fonte importante di questi minerali. Ora dunque bisognerà acquistare solo da importatori che certificano la provenienza delle loro partite di minerale? Quanto costerà ? La legge Dodd-Franck (dal nome degli estensori) è in discussione da oltre un anno, e l’assalto dei lobbisti non è terminato.
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