Il cacciatore del Leonardo perduto “Così svelerò il suo ultimo mistero”

by Editore | 16 Marzo 2012 7:21

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FIRENZE – Il capolavoro perduto di Leonardo è lì sotto: lui lo sente, lo crede, lo sa. È così vicino che potrebbe allungare la mano dal ponteggio nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, e toccarlo, se non ci fossero di mezzo due centimetri di affresco del Vasari, poi 15 di mattoni, poi due o tre di vuoto. L’ingegner Maurizio Seracini non è mai stato così vicino al mistero che insegue da trentasette anni, cacciatore ad altissima tecnologia all’inseguimento di una preda vecchia cinque secoli che gioca a rimpiattino con le sue armi da Superman, radar, termografie, laser, ma che ora, forse, s’è lasciata prendere per un’unghia, con l’ultimo attrezzo dell’arsenale: un endoscopio da chirurgo capace di frugare nelle profondità  di un muro intoccabile. 
Briciole. Quel che ha in mano Seracini, bio-ingegnere specializzato in storia dell’arte, 2.600 indagini scientifiche su pitture e architetture, docente all’Università  americana di San Diego, è un minuscolo gruzzolo di polvere e schegge: ma sono materiali da pittore, non da muratore, e appartengono, lui ne è convinto, alla Battaglia di Anghiari. E allora guardare l’altra Battaglia, l’affresco con cui il Vasari nel 1557 avrebbe ricoperto il fallimento più sublime e doloroso del genio di Vinci, per Seracini è un supplizio di Tantalo: «Qui sotto può esserci il capolavoro del Rinascimento… Quale paese al mondo si lascerebbe scappare l’opportunità ?». 
Perforare un’opera compiuta per cercarne una che potrebbe non esserci? Spendere milioni di euro per un mistero magari deludente? Le polemiche infuriano, fuori dal portone. Ma in questa sala carica di storia ora ci sono solo un cercatore, il suo Graal, e una sfida. La pulce nell’orecchio gliela mise per primo Carlo Pedretti, “leonardista” illustre, suo docente negli Stati Uniti, incontrato nel 1975 a Firenze mentre cercava tracce della Battaglia, l’affresco “non a fresco”, il manifesto politico che la rinata Repubblica commissionò a Leonardo nel 1503, e che lui volle realizzare a modo suo, senza la fretta dell’affrescatore, con una tecnica inusitata: dipingere a olio sul muro, come fosse una tavola; il capolavoro però gli si disfece sotto gli occhi. Tutto quanto? «Al massimo restano tracce malandate, inutile cercare», protestano gli scettici. «Ma una parte delle figure rimase leggibile a lungo, ne furono fatte copie, ne parlano i testi», ribatte Seracini: per esempio quel Doni che nel 1549 invitava a visitare «un pezzo di battaglia di Lionardo da Vinci, che vi parrà  una cosa miracolosa». «Altro che “tracce malandate”, lì sotto c’è Leonardo». 
Ma dove? Per aiutare il suo maestro, Seracini comincia a sondare le pareti con ultrasuoni e termografie, scopre finestre tamponate, scale demolite, ingressi chiusi, e capisce che la parete su cui Leonardo lavorò non era quella nord, dove si pensava, ma l’opposta: la sala aveva cambiato struttura nel tempo. Poi scopre che sulla «parete giusta», dietro al Vasari, c’è un’intercapedine lasciata forse dal pittore che, quando ricoprì i cavalli di Leonardo, lui che li aveva tanto ammirati, forse li risparmiò così. Bisogna allora andare a vedere là  dietro. Seracini è citato nel Codice da Vinci di Dan Brown, ma «la mia non è fantasy, è scienza». Pensa di usare l’ultravista della diagnostica per immagini. Adattando all’arte strumenti nati per la medicina. Nel 2000, Seracini prepara uno scanner ad attivazione neutronica in grado di frugare nei corpi opachi e scoprirvi la presenza di idrogeno e, grazie ai raggi gamma, di varie sostanze. L’idea è di cercare sostanze simili ai materiali pittorici notoriamente utilizzati da Leonardo, l’olio di lino, le lacche, le resine. Ma dopo esperimenti con l’Enea, all’improvviso arriva uno stop «dalle autorità  culturali»: niente radiazioni a Palazzo Vecchio. Sembra la fine di tutto, ma Seracini ha un’altra idea. Andare a vedere con gli occhi. Cioè quella protesi degli occhi che i medici adoperano per frugare i corpi umani: l’endoscopio. Bisogna però trapassare fisicamente il dipinto del Vasari. Esplode l’indignazione degli storici dell’arte, ma si può fare senza ridurlo a un colapasta, l’affresco offre varchi innocui, stuccature tarde, micro-crepe. L’ingegnere chiede 14 accessi. Sotto la pressione delle polemiche sul “Vasari trapanato”, l’Opificio delle Pietre Dure, tutore dell’arte fiorentina, gliene concede solo sei, per giunta «periferici rispetto all’area dove penso sia il cuore della Battaglia». Sconforto, ma è l’unica occasione. 
Il trapano fa sei forellini, da 6 millimetri a 2 centimetri. Seracini di persona inserisce la sonda, una telecamera tubolare con luce, di 4 millimetri di diametro. «Non lo nego, speravo nel miracolo: vedere un occhio, un dito, un ciuffo di peli di criniera». Delusione. Dai fori 1, 2 appare intonaco neutro. I fori 3, 5 e 6 non beccano neppure l’intercapedine, ma restano ingabbiati dentro i mattoni d’appoggio tra le due pareti. Solo dal foro 4 la sonda raggiunge una cavità , e vede l’agognata parete misteriosa. Ahimè, niente occhi né criniere. Grumi di materia grezza. Ma colorata. Scaglie brune: cocciopesto? Una superficie rossa cosparsa di puntini neri, regolari: tracce di uno “spolvero”, il riporto del disegno dal cartone al muro? E ancora, una superficie beige aderente «come stesa con un pennello». Con un micro-cucchiaio preleva con fatica frammenti di meno di un millimetro, abbastanza per passare al laboratorio. 
E le analisi sui campioni, «che metterò a disposizione di qualsiasi verifica», confermano che non è roba da muratori, ma da pittori: il rosso è un pigmento di calcite e ferro, le scaglie sono base di una lacca che sembra «molto simile» a quella usata nell’Adorazione dei Magi degli Uffizi; il nero è terra d’ombra più biossido di manganese, componenti delle tinte scure dei pittori dell’epoca, ma con la proporzione tra ferro e manganese tipica di Leonardo, la stessa trovata dal Louvre nel San Giovanni Battista e nella Gioconda. 
Ma questi referti da analisi del sangue, sono Leonardo? Tra un grumo di polvere e la Battaglia di Anghiari, professore, c’è un mare. Seracini non forza la mano: «So di non avere ancora colpito il big target, il bersaglio grosso. Ma sono indizi fortissimi. Che ci fanno in un muro lacche e pigmenti? Proprio lì dove li cercavo? Su quella parete nascosta qualcuno dipinse, e non può essere stato nessun altro, né prima né dopo Leonardo, non c’è alcun documento che parli neppure di decorazioni, eppure le spese più minuziose per quella sala sono tutte documentate». 
Fermarsi qui sarebbe «assurdo. Siamo a un passo dalla soluzione». Trapanare ancora il Vasari? O smontarne qualche tassello? «È un affresco bisognoso di restauri, e gli affreschi possono essere rimossi». Guarda lo schermo colorato che lo separa dal sogno di una vita come Schliemann dovette guardare la collina di Troia: «Mi hanno concesso spiragli per 6-7 centimetri, per sondare un’area di 200 metri quadri, tre volte l’Ultima cena. Mi basterebbe una finestra un po’ più grande, e al posto giusto». Sperando di vederci spuntare quell’occhio, quel crine? In un bordo del suo affresco-schermo, proprio sulla verticale dell’area dove potrebbe esserci il Leonardo, Vasari dipinse una bandierina verde con la scritta bianca “cerca trova”. Da trentasette anni, o da cinque secoli, per Seracini quella è una sfida.

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