Icone e feticci in vetrina a Mosca

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Per tutta la seconda metà  dell’anno scorso il ventesimo anniversario della dissoluzione dell’Urss – centellinato giudiziosamente in un arco temporale inaugurato dal putsch di agosto e conclusosi con la definitiva firma del 26 dicembre – ha fornito ai media russi l’occasione per portare alla ribalta i rappresentanti della prima generazione «a-sovietica», ragazzi e ragazzini anagraficamente estranei al reaganiano impero del male, talvolta vagamente stupefatti all’idea che al Cremlino non ci sia sempre stato Putin. Chi di certo non può vantare la stessa invidiabile innocenza è Katia Metelizza, ironica giornalista moscovita che già  nel suo Diario di Luiza Lozkina aveva riassunto così il «dramma! sperimentato da lei e dai suoi coetanei: «Tan’ka mi ha detto che sono nata sotto l’Unione Sovietica, per questo ho il gusto rovinato per sempre». E, in effetti, è sufficiente una vita per passare – senza eccessivi contraccolpi psicologici – dalle aringhe sotto sale alle escargot? Quali stigmate può lasciare sull’autostima l’aver portato in una indefinita fase della crescita collant di un azzurro tenue confezionati in qualche repubblica baltica?
A questi e consimili interrogativi la Metelizza ha dedicato il semiserio Nuovo abbecedario russo, proposto in italiano dalle edizioni romane 66thand2nd nella piacevolissima traduzione di Valérie Tomasi. Dalla lettera A di Aeroporto (ambientata tra i doganieri arcigni dello scalo di Seremet’evo) alla Z di Zebra (quella che una notte si materializza di colpo in via Tverskaja, in un’allucinazione di sapore bulgakoviano), l’autrice – columnist di costume su testate quali «Nezavisimaja gazeta» e «Bol’shoj gorod» – attira il lettore in un vertiginoso slalom tra i paletti di quella variopinta «vita dopo la morte» che per gli appartenenti alla sua generazione è cominciata con la caduta dell’Urss, evocando icone e feticci del «prima» e del «dopo». Refrattaria a qualsiasi forma di rimpianto per l’epoca dei formaggini spalmabili «Amicizia» e delle gomme da masticare di imitazione polacca, la Metelizza considera con il medesimo disincanto i riti dellla società  consumistica post-sovietica e i suoi schizofrenici concittadini, che vi si sono così rapidamente adattati. Non al punto però da non lasciar intravedere sotto l’onnipresente patina glamour le imbarazzanti stigmate della sovietudine. Come coloro che sono diventati da poco vegetariani e che eppure, colpiti da temporanea amnesia, a volte si infilano in bocca una fetta di salame (S come «Santa Salsiccia»). Oppure come quell’energica signora con un colbacco di pelliccia in testa che, interrogata dall’autrice per strada su eventuali rimorsi di coscienza ambientalisti, era passata al contrattacco: «’E lei, che cos’ha indosso?’ Ho detto la verità : è acrilico. ‘E non prova un po’ di pietà  per lui?’ ‘Pre chi?’ ‘Come per chi?! Ma per il suo acrilico!’» (D di «Dilemma Morale»).
Se le nuove pretenziose catene di supermercati come «L’alfabeto del gusto» sono ovviamente il confortevole tempio dell’inautentico («Oggi tutto viene prodotto secondo le antiche ricette russe, dai cornflakes alla maionese») e se nei ristoranti tipo il café Puskin, con i suoi camerieri in abiti ottocenteschi, vero e falso si fondono al punto da risultare pressoché indistinguibili, è invece nelle dacie fuori città , seppellite dal ciarpame del passato, che viene fuori la schiettezza russa. 
Se questo sia un bene non si sa, comunque l’autrice dedica memorabili pagine (fintamente) elegiache alle case di campagna, dove gli anziani rispolverano le usanze contadine della loro infanzia e «nutrono il barboncino o il boxer alla maniera in cui una volta si ingozzava il maiale, dandogli chili e chili di avena preparata con l’acqua di cottura della pasta, neanche fosse destinato al macello». Ma ai contraccolpi di una transizione a dir poco repentina al capitalismo si somma – a complicare la situazione – l’irrazionalità  di catastrofi cicliche quali la pausa primaverile nell’erogazione dell’acqua calda o le festività  invernali «doppie», celebrate secondo l’antico e il nuovo calendario (con, in più, la recente concessione al 25 dicembre «globale»), in un parossismo libatorio che riduce la popolazione allo stremo. Spassoso, a tratti esilarante, l’Abbecedario della Metelizza spiega molto della Russia odierna o, meglio, di quella sua peculiare vetrina che è Mosca. E lo fa valendosi anche del raffinato commento visuale costituito dalle illustrazioni di Jean-Francois Martin che alludono ora alla grafica sovietica (in primis a Vladimir Lebedev), ora al Lessico fondamentale di Grisa Bruskin che adorna il nuovo Reichstag a Berlino, ora all’iconografia classica degli abbecedari. 
Anche perché, in ultima istanza, l’intento della Metelizza non può che essere latamente didattico, come lei stessa è pronta ad ammettere: «Anche i nuovi russi sono uomini e vanno studiati come tutto il resto».


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