I traumi della guerra e la storia dei vinti

by Editore | 24 Marzo 2012 15:27

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In un secolo in cui vincitori e vinti hanno spesso invertito la propria posizione, in modo anche repentino, sono state peraltro le stesse generazioni a vivere sulla propria pelle lo stravolgimento della propria posizione sociale. Grazie ai nuovi studi sui processi migratori di lunga durata è stato più volte affrontato in termini scientifici anche il controverso tema dell’espulsione dei cittadini di nazionalità  tedesca sulla base del principio della «colpa collettiva» al termine della guerra (in tempi recenti ad esempio da Karl Schlà¶gel). 
Per quanto riguarda la Cecoslovacchia, grazie all’importante lavoro documentario degli ultimi anni, è stato possibile ricostruire senza deformazioni ideologiche il decorso dell’espulsione di tre milioni di tedeschi dalla Cecoslovacchia nell’immediato dopoguerra, dalla prima tappa, la violenta e spietata «espulsione selvaggia» (in realtà  consapevolmente provocata da politici e militari), fino alla grande espulsione organizzata a distanza di alcuni mesi, che ha seguito invece regole più umanitarie, benché comunque crudeli. 
Nella cultura ceca si tratta di un tema a lungo rimosso, ma che in tempi recenti sembra attirare scrittori di generazioni diverse. Lo struggente Arcobaleno divino di Jaroslav Durych è stato il primo testo letterario ad affrontare, attraverso la distruzione del panorama dei Sudeti abbandonati dai tedeschi, le tracce di devastazione rimaste nelle coscienze individuali (scritto nel 1955 e pubblicato soltanto nel 1969, non è stato mai tradotto in italiano). In questo sempre più produttivo filone narrativo si inserisce il romanzo L’espulsione di Gerta Schnirch, pubblicato nel 2009 dalla giovane scrittrice ceca Katerina Tuckova (1980) e tradotto ora in italiano da Laura Angeloni per Nikita editore (pp. 488, euro 14,50). 
Senza particolari orpelli retorici, la narrazione si snoda lungo l’asse cronologico, appena movimentata da pochi cambiamenti di prospettiva narrativa. Davanti alla telecamera dell’autrice staziona per quasi tutto il libro la protagonista, Gerta Schnirch, che vive sulla sua pelle non solo la vicenda dell’espulsione dell’immediato dopoguerra, ma anche l’esclusione da ogni forma normale di vita, come se l’espulsione diventasse il suo vero marchio esistenziale. Il trauma si eleva quindi a reale procedimento letterario del libro, come se fosse impossibile comprendere la banalità  del male senza passare per l’agghiacciante deformazione dell’essere umano. 
Una normale famiglia mista (padre tedesco, madre ceca) inizia a frantumarsi sotto la pressione dell’ascesa del nazismo. E la frattura non è solo di carattere ideologico (padre e figlio segnati dal dilagante nazismo), ma anche nazionale (madre e figlia legate al mondo ceco), anche perché la protagonista si allontana sempre più dall’universo tedesco, che l’ha trasformata in una vittima. La crescente violenza del padre culmina infatti nello stupro della figlia dopo la morte della madre. Quest’episodio incestuoso, narrativamente alquanto forzato, accresce da un lato la dimensione tragica del romanzo, ma rende fin troppo espliciti i motivi delle successive difficoltà  nei rapporti, in particolare tra la madre e la figlia destinata a nascere da quel rapporto.
Il 30 maggio del 1945 Gerta Schnirch è una delle tante donne, bambini e anziani che vengono raccolti e incolonnati per essere deportati, in quello che si rivelerà  di uno degli episodi più cruenti dell’espulsione selvaggia, la celebre «marcia della morte di Brno», nel corso della quale sono perite migliaia di persone. Stupri, atrocità  e violenze più o meno gratuite sono naturalmente all’ordine del giorno, finché le donne sane sopravvissute alla mattanza non riescono a ottenere di essere utilizzate almeno come forza lavoro in campagna. Inizia qui la parte più riuscita del libro, in cui la vita quotidiana è descritta con grande plasticità , a partire dallo stravolgimento provocato in queste «terre di nessuno» dall’arrivo dei nuovi «colonizzatori» cechi dell’entroterra, che mirano soltanto alla totale cancellazione dell’elemento tedesco. Per sopravvivere Gerta Schnirch si trasforma quindi in Gerta Schnirchovà¡, cechizzando simbolicamente il suo nome, senza però riuscire a sfuggire alle punizioni che la attendono negli anni seguenti. Il rifiuto dell’espulsione fisica (Gerta riuscirà  alla fine a tornare a Brno) segna infatti il suo destino successivo, nel quale il marchio d’infamia dell’essere tedesca ne distruggerà  infatti a più riprese la vita, la carriera e i rapporti.
Nei capitoli finali la caratterizzazione della protagonista si fa meno convincente, anche per i dialoghi non sempre consoni all’epoca. La protagonista vive sulla sua pelle nuove fasi di ostracismo (ad esempio dopo la repressione della Primavera di Praga) o di simpatia da parte di alcuni giovani che chiedono ai politici locali di scusarsi ufficialmente (dopo il 1989), ma troppo trasparente sembra l’intenzione di incidere sulla memoria collettiva del presente più che rendere salda la struttura narrativa del romanzo. Si distingue invece il breve capitolo in cui il fratello di Gerta, partito come volontario al fronte, sopravvissuto e riparato in Germania, pur essendo in ogni momento tormentato dagli omicidi efferati che è stato costretto a compiere nella parte finale della guerra, ricorda con una certa ammirazione il folle piano di conquista razziale dell’Europa.
Costruito integralmente sul dato emotivo, L’espulsione di Gerta Schnirch può essere letto come un tentativo di dare voce anche alle vittime che nel sentire comune sono identificate con i carnefici. Certo al romanzo avrebbe senz’altro giovato una maggiore concentrazione e una drastica riduzione del materiale, la cui accumulazione ha spesso l’effetto di indebolire l’effetto emotivo. Al di là  di questi difetti strutturali, forse dovuti all’età  dall’autrice, il libro ha il grande merito di presentare al lettore italiano, con tutta la crudezza che gli episodi raccontati richiedono, uno spezzone di storia europea che a lungo non ha interessato nessuno perché troppo evidenti erano le colpe delle vittime.

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